Le prime, di solito, sono le nonne. La notizia di un nipotino in arrivo, specie se è il primo e se lo attendevano da tempo, le trasforma in delle perfette invasate, anche se prima erano sempre apparse persone di un certo equilibrio. Domande fin troppo personali, regali prematuri, progetti a lungo termine sulla vita del nascituro, consigli non richiesti di puericultura preistorica, appellativi morbosi all’indirizzo del “loro” bambino. Quella che fino a un attimo prima era una figlia o una nuora diventa semplicemente la madre del loro adorato nipotino. Pazienza se è infarcita di ormoni, spaventata, stanca e con un senso di inadeguatezza secondo solo al suo girovita. Le nonne parlano, agiscono, comprano, riferiscono, programmano, decidono, domandano. Senza chiedersi neanche per un attimo se il loro comportamento possa in qualche modo infastidire o far soffrire la gestante.
Poi, man mano che il tempo passa e il ventre lievita, arrivano le amiche, le conoscenti, le passanti. Il grande classico è il racconto del proprio parto, possibilmente corredato di particolari simil-scientifici su episiotomia, epidurale, emorragie e secondamento. Una volta, quando ero al terzo mese della mia prima gravidanza, una tizia che incontravo per la prima volta mi disse (cito testualmente, giuro che è la verità): “Ah, sei incinta? Io quando ho partorito ho pensato seriamente che sarei morta”. La variante preferita è quella sull’allattamento. Storie raccapriccianti su capezzoli purulenti, piagati, tumefatti, devastati. Fino a veri e propri casi di amputazione dell’intera areola ad opera del neonato vampiro.
Dopo il parto, la situazione non accenna a migliorare. L’allattamento non decolla e tu ti senti la peggiore delle madri? Non temere: incontrerai di certo la zia/cognata/vicina di casa/passante di turno pronta a spiegarti come crescono bene i bimbi allattati al seno, o a riferirti di quanta fatica stia facendo – poverina! – per togliere la tetta al suo marmocchio duenne. Tuo figlio cresce poco? No problem. In un batter d’occhio ti troverai circondata di genitrici entusiaste di sbandierare i percentili ipertrofici del loro frugoletto, che a 4 mesi veste come minimo la taglia 3 anni. Se poi il tuo neonato non ti fa dormire, come per magia appariranno intorno a te neomamme che non possono fare a meno di informarti che il loro angioletto di 9 settimane si spara 7 ore di sonno notturno consecutivo. Nella culla. In camera sua.
Moltissime madri, in parole povere, mostrano un’abilità impressionante nel dire a un’altra madre in difficoltà esattamente quella cosa che riesce a farla sentire ancora peggio. Tu vorresti un incoraggiamento, e ti arriva il paragone impietoso. Tu avresti disperatamente bisogno di un milligrammo di comprensione, e ti arriva la critica mascherata da consiglio amichevole.
Perché poi, al di là degli immancabili paragoni, la cosa peggiore è che spesso – molto più spesso di quanto avrei mai saputo immaginare “prima”, anche nel più pessimistico degli scenari – è che al confronto si aggiunge di solito l’insinuazione che ogni madre conosce.
Che la causa del problema, di qualunque natura esso sia, stia proprio nel comportamento materno.
Se l’allattamento non va come dovrebbe, forse è perché tu hai fatto/non hai fatto la tal cosa. Se il bambino non dorme, probabilmente non hai provato a fare/non fare la talaltra. E così via se il bebè non mangia, non cammina, si comporta “male”, non riesce a fare a meno del ciuccio/seno/biberon/pannolino, piange con gli estranei, non parla, non vuole andare all’asilo, eccetera eccetera eccetera. Insinuazioni molte volte fatte tra le righe, con educazione, in qualche caso finanche con ostentata dolcezza. Mascherate immancabilmente da opinioni imbevute di solidarietà.
Probabilmente, dirò di più, i commenti di questo tenore nascono spesso in buona fede e senza alcuna malizia (anzi, magari con le migliori intenzioni), ma sortiscono comunque, in molti casi, l’effetto opposto: far sentire una madre in crisi ancora più inadeguata e fallimentare di quanto non si sentisse prima del colloquio illuminante.
Perché quella delle mamme è in assoluto la categoria meno empatica con cui mi sia mai trovata a confrontarmi.
Eppure, basterebbe davvero poco.
Basterebbe chiedersi, prima di aprire bocca (oppure sospirare, alzare sopraccigli, stirare i muscoli facciali): come mi sentirei, IO, se dovessi lasciare mio figlio a mia madre/suocera e lei non facesse che sottolineare quanto suo nipote la adori “come una mamma”? Come mi sentirei, IO, se dopo un anno di notti insonni sentissi mia sorella sentenziare che “ho sbagliato a tenerlo nel lettone con me”? Come mi sentirei, IO, se la mia amica parlasse di un bambino molto simile a mio figlio come di un mammone, capriccioso o viziato (dopo che io mi faccio in quattro ogni giorno per renderlo una persona educata)?
Basterebbe ricordare che, anche se dette con le intenzioni migliori, le parole possono pesare come incudini e tagliare come cocci di vetro, specie se giungono a orecchie che vivono situazioni particolari, come la gravidanza, il puerperio o altre fasi delicate dell’avventura infinita della maternità. Che non tutti siamo uguali, che la sensibilità, la suscettibilità, l’insicurezza, variano considerevolmente da un individuo all’altro, e quello che a me scivolerebbe addosso potrebbe mandare in crisi un’altra persona (o viceversa).
Basterebbe ricordare, soprattutto, che una madre (e più in generale, una persona) in difficoltà, raramente è in cerca di consigli e “soluzioni”, per il semplice fatto che è molto raro che la risposta a questioni tanto personali come quelle implicate nella crescita di un figlio possa giungere dall’esterno. Una madre in difficoltà, di solito, chiede aiuto perché vorrebbe solidarietà, comprensione, compagnia, ascolto. Un abbraccio forte e una battuta scema, un bacio con lo schiocco e un “ti penso, tieni duro e passerà”. Il minimo sindacale di empatia, appunto.
E non una lezione di vita a buon mercato, che magari finisce col procurare più dubbi che risposte.