“Mamma, come mai noi torniamo sempre a casa a piedi, mentre (quasi tutti) i miei amici vanno sempre via in macchina?”. Me lo ha chiesto Davide, ieri, con tranquillità, mentre rientravamo dall’asilo insieme a sua sorella. Io gli ho risposto senza fare paragoni, elencando semplicemente tutti i motivi per cui è bello tornare a piedi: ci godiamo il sole, facciamo “ginnastica”, risparmiamo benzina, guardiamo gli aerei passare, accarezziamo i cani che vanno a spasso, eccetera eccetera.
Lui mi è parso accontentarsi della mia risposta, e abbiamo proseguito nella nostra quotidiana passeggiata. Era successa una cosa del genere qualche tempo fa, quando all’improvviso mi aveva chiesto dove fosse finito il suo biberon. Gli avevo detto, con sincerità, che lui non lo aveva mai usato, perché lo avevo allattato per molto tempo e poi aveva cominciato a bere direttamente il latte dalla sua tazza. Quella volta era rimasto perplesso per un po’, come se faticasse ad accettare di non essere “come tutti gli altri”.
È una cosa che mi spaventa molto, questa del confronto con gli altri e della consapevolezza della propria “diversità”. Non voglio che i miei figli si sentano strani, o sbagliati (come a volte succede a me) per decisioni che abbiamo preso al posto loro. Per scelte non proprie, ma dei loro genitori, si ritrovano già ad aver vissuto molte esperienze non proprio comuni, perlomeno nel contesto in cui sono inseriti. Sono quasi gli unici, tra i bambini che frequentiamo, ad essere stati allattati a lungo e portati in fascia. Sono tra i pochissimi a viaggiare molto e fin da piccoli. Hanno una madre che lavora, ma che sta quasi sempre con loro. Dormono, a differenza di tutti gli altri, “ufficialmente” e in modo stabile insieme ai genitori. Vanno a letto ben prima della media dei loro coetanei e, di conseguenza, hanno ritmi e abitudini diverse, a volte relativamente incompatibili con quelle delle altre famiglie (spesso noi raggiungiamo la destinazione di una gita fuori porta mentre gli altri ancora dormono, e ci svegliamo dalla siesta quando i più si sono appena alzati da tavola). Quando andiamo al parco giochi cittadino, Davide e Flavia sono i soli che non si arrampicano sull’altalena per bimbi in carrozzina, per non rischiare di danneggiarla usandola impropriamente.
I miei figli sono spesso i soli, tra i coetanei che frequentano, a fare o non fare molte cose. Non è che a lungo andare finiranno col ritrovarsi soli e basta?
Ognuno di questi singoli dettagli – quanto siano stati allattati, dove abbiano dormito per i primi anni di vita, quanti viaggi abbiano fatto e via dicendo – nell’economia complessiva delle loro esistenze non avrà peso alcuno. Ma se fosse l’insieme di tutte queste cose, la direzione generale che stiamo dando alle loro vite, a condizionarli dolorosamente negli anni? Io l’ho sofferto spesso, questo senso di solitudine e di “stranezza”. Ho sentito molte volte, specie negli ultimi anni, che in pochi potessero davvero capirmi. E non per disamore o disinteresse altrui, ma perché, senza merito né colpa, il mio sentiero – e il mio sentire – spesso diverge da quello della maggioranza della gente. Non voglio che i miei figli soffrano a causa delle mie scelte anticonformistiche. Ma non voglio neanche rassegnarmi a cambiare quello che sono, e il modo in cui mi piace stare al mondo, per paura che loro si sentano bizzarri, o diversi.
Com’è difficile. Com’è difficile trovare il compromesso migliore tra l’espressione di sé e la necessità di sentirsi parte di una comunità, di sentirsi simili ai propri simili. Come sarà difficile dover ragionare con dei figli che saranno – che già sono – altro da me, e che dalle mie scelte, magari proprio per conformarsi agli altri, vorranno prendere le distanze. Aiutarli a pensare con la propria testa, specie quando non sarà in accordo con la mia. Ad essere se stessi e a bastarsi, pur senza fare a meno della condivisione e della comunione con gli altri.
Sarà difficile. E sarà impossibile non fare errori. Speriamo almeno di non farci troppo male.