Succede che un giorno, mentre come ogni mattina accompagni tuo figlio al nido, ti imbatti in una rumorosa manifestazione studentesca, che al grido di “La gente che ci vede ci domanda: voi chi siete?” rallenta il traffico e invade anarchicamente ogni centimetro disponibile.
Accade allora che per qualche istante tu ti senta istintivamente una di loro. Sai che potresti mimetizzarti senza disagio tra quelle scolaresche chiassose. Riconosci i timbri vocali ancora immaturi dei maschi, le voci squillanti delle femmine, la fretta tutta giovanile dei loro passi. Annusi odore di adolescenza, un misto di ormoni e umori e marijuana, e ti pare di non aver mai lasciato quel mondo. Guardi quelle barbe ancora acerbe, quelle guance tormentate dall’acne, quegli apparecchi che scintillano nelle bocche sempre aperte. E le dita intrecciate delle ragazze, i gruppetti che si formano e si disfano come stormi di uccelli. Senti le chiacchiere fitte, necessarie, inevitabili. E ti pare di non essere mai uscita da quel mondo. Tutto ti sembra familiare, ordinario, normale. Semplicemente, tuo. Ricordi di aver provato molte volte, negli anni, la stessa sensazione. Passando fuori a una facoltà universitaria, a un circolo studentesco, a una biblioteca.
Ogni volta ti mescoli a quella caotica folla di studenti e credi per un attimo di essere ancora come loro.
È questione di secondi, poche decine. Poi riprendi coscienza della realtà. Realizzi che stai procedendo nella direzione opposta al corteo di studenti, e che anche se marci spedita, stai spingendo un passeggino e un pancione rotondo come un grosso pallone da basket. Ti osservi rapidamente, constatando che mentre tu, sotto una t-shirt grigia, indossi un jeans scampanato e dei sandali di cuoio di manifattura tedesca, loro portano pantaloni attillatissimi, sneakers basse dai colori fluorescenti e borse a tracolla molto diverse dallo zaino che conteneva il tuo mondo negli anni di scuola.
È un attimo, e ti rendi conto di avere 15 anni di più rispetto a più anziani di loro. Che i più giovani potrebbero essere figli tuoi e che il bambino che stai accompagnando all’asilo è anagraficamente più vicino a quegli studenti di quanto non lo sia tu.
Soprattutto, comprendi che tra voi passa in realtà una distanza incolmabile, che vi separa una differenza forse solo teorica ma comunque fondamentale: loro, i ragazzotti che sfilano senza troppa consapevolezza dietro striscioni improvvisati, hanno dinanzi una gamma infinita di possibilità, per lo meno ipotetiche. Tu, invece, hai già messo in fila una serie di decisioni, se non tutte irrevocabili, almeno pesantissime per le loro conseguenze a lungo termine. Università, lavoro, casa, matrimonio, figli.
Forse è questo, in ultima analisi, che dà il senso definitivo del crescere. La conclusione della giovinezza sta nella progressiva rinuncia a tutte le possibilità alternative cui dici addio per sempre ogni volta che prendi una decisione importante.
E anche se è bello constatare che sei felice delle scelte che hai fatto, che tornando indietro cambieresti ben poco del tuo passato recente, dover dire a te stessa che no, non hai più molto in comune con quei liceali, lascia un po’ di amarezza in fondo al palato.
Ma forse sono ancora i fumi dell’aerosol che hai dovuto fare a tuo figlio per l’ennesimo raffreddore che ha preso da quando ha cominciato il nido.