Ho scoperto di essere incinta un pomeriggio di giugno, non ricordo se facesse già caldo. Il test di gravidanza andrebbe fatto al mattino, lo so, ma una nipotina che avevo visto pochi giorni prima aveva appena contratto uno di quei virus da bambini, e la prospettiva del contagio mi spaventava: non potevo aspettare. Pomeriggio o non pomeriggio, caldo o non caldo, il verdetto è apparso inequivocabile in capo a poche decine di secondi. Due linee rosa, abbastanza nitide. In fondo, lo sapevo già.
Sono stata felice, all’inizio. In effetti quel figlio lo avevamo cercato, o per lo meno non avevamo fatto niente per impedire che arrivasse. Non avevamo praticamente dovuto desiderarlo, tanto era giunto in fretta, una fortuna concessa a pochi. E felice lo sono rimasta per un po’ di tempo, a dire il vero. Per tutto il tempo in cui la notizia di quella fortunosa fusione cellulare è rimasta segreta. Poche settimane di beata clandestinità, a fantasticare in silenzio su un futuro che sembrava avere soltanto tre proprietari. Ma certi segreti, si sa, prima o poi li devi tradire per forza. Li devi condividere, perché in fondo non riguardano soltanto te.
Rivelare la mia gravidanza non è stata la gioia che avevo sempre immaginato. Il momento emozionante che tanti genitori ricordano per tutta la vita. Quello che rammento io è una specie di ansia serpeggiante, un allarme interiore che strillava e lampeggiava senza pietà. Sesto senso, chissà. Forse è solo che un po’ mi conosco. Gli “altri”, naturalmente, sono stati felici per noi. Sorpresi fino a un certo punto – in fondo, eravamo sposati da più di un anno, e io avevo già spento 31 candeline -, sicuramente emozionati. C’è chi è rimasto imbambolato, chi ha balbettato qualche frase di circostanza, chi mi ha guardato il ventre ancora piatto con occhi lucidi.
Tutto nella norma, insomma. Se non fosse che, via via che io e la mia pancia lievitante ci trovavamo sempre più invischiate in sabbie mobili di melassa e cuoricini, ho smesso a poco a poco di essere felice. L’esultanza granitica degli altri – immune al dubbio, alla paura, al ripensamento – mi ha travolto come uno tsunami e mi ha inesorabilmente spazzato via. Ho conosciuto il senso di colpa. Di chi si chi chiede se la sua vita “di dopo” sarà all’altezza di quella di prima, mentre tutti intorno sfoderano il loro sorriso più convinto e ipotizzano: “Sarai al settimo cielo, no?”
Ho conosciuto la paura. Di chi ha faticato trent’anni per essere indipendente almeno un po’. Di chi ha strappato con le sue unghie mangiucchiate frammenti di libertà e autodeterminazione, e a un tratto si ritrova oggetto di attenzioni morbose e programmi che non ha contribuito a stendere. Di domande ossessive, di curiosità inopportune e premature.
Ho conosciuto la gelosia. Verso chi sembrava aspettare mio figlio come se fosse il suo. Dando per scontate cose che scontate non erano, covando aspettative che io trovavo non solo illegittime, ma a tratti farneticanti. Riempiendo le frasi di plurali che includevano anche me, mio figlio e suo padre. Senza che nessuno avesse chiesto il mio parere.
Ho conosciuto la vergogna. Di chi passava inosservato da sempre e all’improvviso suscitava una irrefrenabile benché temporanea curiosità. Di chi doveva, da un giorno all’altro, sopportare sul proprio ombelico il peso di sguardi che prima si limitavano a sfiorarla, e che “dopo” avrebbero ripreso a ignorarla sistematicamente, per concentrarsi sul nuovo. Ho conosciuto il rimorso e la frustrazione. Di chi si è sentito dire che “non era normale” essere tanto spaventata davanti a quello che era a tutti gli effetti “il miracolo della vita”.
Solo Dio e mio figlio e sanno quante volte ho pianto, da sola, davanti al monitor del mio computer. Quante volte, in quelle 39 settimane, ho ascoltato straziata la stessa ninna nanna struggente in cui una madre, che madre non dovrebbe essere, addormenta suo figlio in una cesta e lo affida al mare. Quante volte ho pensato che per avere quel bambino avrei perso cose altrettanto preziose. E che forse, paradossalmente, quel bambino non sarebbe stato neanche mio, ma di chi sembrava desiderarlo più di me, di chi avrebbe saputo amarlo davvero, di chi ne parlava come di una grazia divina e di un regalo per sé. Solo Dio e Davide sanno quanto avrei voluto poter tornare indietro, salvarmi da mio figlio e, soprattutto, mettere lui in salvo da sua madre. Forse lo sa pure il gatto, che mi guardava attonito ma scappava a nascondersi ogni volta che mi sfuggiva un singhiozzo un po’ più forte degli altri.
Quando l’attesa (dolce, dolce come certi veleni) si è conclusa, ho cominciato, senza averlo mai deciso, a erigere barricate, muri invisibili per proteggermi dal mondo e da me stessa. A distillare, dietro quelle pareti di pietra dura, la mia colpa indelebile. La colpa di chi ha permesso che qualcosa le impedisse di accogliere suo figlio come avrebbe dovuto. Perdonarmi, per adesso, è fuori discussione. Spero che mio figlio, che quei singhiozzi li ha uditi da sotto il mio stesso cuore, sia più indulgente di me, e possa accettare prima o poi le scuse eterne di sua madre.