Il primo è stato un ramo di bambù dell’Ikea. Mi faceva una gran pena, chiuso in quella provettina di plastica sotto le luci al neon, a tanti chilometri dalla sua terra d’origine. Allora l’ho portato a casa e gli ho dato un nome che adesso ho dimenticato. Ho seguito pedissequamente le indicazioni stampigliate sull’etichetta che gli avevano appiccicato addosso e, in effetti, per un po’ ha funzionato. Solo che a un certo punto qualcosa è andato storto. L’acqua nel vasetto è diventata putrida come la Palude Pontina prima delle bonifiche, e il bambù ha cambiato colore. Verde sempre più pallido e poi giallo vomito. Stecchito. Sarà morto di vecchiaia, ho pensato.
Con la stella di Natale però è andata anche peggio. All’Epifania aveva già perso la maggior parte delle foglie, e allora ho fatto come mi consigliava qualcuno: l’ho potata e l’ho messa in giardino, accanto al piccolo abete che ho salvato da morte certa – almeno lui! – quando ero piccola. Da allora sono passati 5 anni e la pianta non ha mai tirato fuori una nuova foglia, mi sa che posso anche smettere di innaffiarla.
L’apoteosi, comunque, è stata con la bomboniera del mio eco-matrimonio. Un bel ficus bonsai. Foglie coriacee, pianta resistente, perfetto. Giuro che mi ci sono messa di impegno. Lo spostavo a seconda dell’esposizione al sole, leggevo forum di botanica sul web. Ogni tanto gli spolveravo finanche le foglie. Ma se non l’avessi affidato a mia madre dopo qualche mese, ne avrei pianto la prematura dipartita tra lacrime amare.