Mio figlio non è precisamente un tipo arrendevole. Quando gli si impedisce di accedere a qualcosa che desidera ma che non è il caso che raggiunga (la lettiera del gatto, per esempio, o le ciotole piene di croccantini, oppure uno qualsiasi tra i pericoli mortali da cui è irresistibilmente attratto) lui strilla come un’aquila. Se un adulto qualsiasi osa frapporsi tra lui e il povero Artù per impedire un gattocidio, Davide urla tutto il suo sdegno con una ferocia sorprendente, per un bambino di un anno. Se gli cambiate il pannolino quando non ne ha voglia: urla. Se lo tirate via dal computer giusto un attimo prima che lui riesca a distruggerlo: urla. Se non ha voglia di uscire/rientrare/stare seduto/alzarsi/dormire/svegliarsi, lui, semplicemente, urla. E quando la voce non è sufficiente a far sbollire tutta la rabbia compressa nel suo piccolo corpo, mio figlio scalcia, punta i piedi, inarca la schiena e a volte molla pure qualche ceffone. Mio figlio di un anno, ogni tanto, molla ceffoni.
Il fatto è che io e suo padre, invece, la voce non la alziamo mai. Gli spieghiamo le cose con calma e con parole semplici, contiamo in silenzio fino a dieci (o a cento) dinanzi ai suoi ammutinamenti, restiamo impassibili di fronte alle sue proteste. Non recediamo, ma neanche aggrediamo. Cerchiamo di risultare autorevoli e solidali tra noi, ma evitiamo di imporci con la forza. Respiriamo profondamente e gli spieghiamo per la centesima volta perché è proprio necessario che si cambi il pannolino bagnato o che esca dal bagnetto dopo mezz’ora di giochi acquatici. Capita anche a noi di perdere la pazienza, certo. Ma cerchiamo sempre di controllare le nostre reazioni. Quando uno dei due è in affanno interviene l’altro, quando proprio capita di parlare a nostro figlio in tono più concitato o con qualche decibel di troppo rimediamo subito abbassando di nuovo i toni, scusandoci e abbracciandolo.