Quando ero piccola, in effetti, mi piaceva molto. Aveva il sapore familiare ma insolito dei rituali che si ripetono una sola volta l’anno, in genere a ridosso delle festività di dicembre. Era un’esperienza collettiva, per giunta. E per me, figlia unigenita di un figlio unigenito, che ancora immaginava fratelli a riempire un vuoto che sarebbe rimasto per sempre incolmabile, già questo lo rendeva un fatto speciale. Il circo di Natale aveva un gusto definito e sempre uguale a se stesso, così perfettamente riconoscibile da essersi stampato subito come impronta indelebile nella mia giovanissima memoria sensoriale. Eppure restava sufficientemente estraneo alla routine provinciale degli altri undici mesi dell’anno da risultare in qualche modo esotico, elettrizzante. Sapeva di popcorn e di mandorle tostate, di stallatico e di generatori a gasolio. Di segatura, di folla, di cosmetici per signora. Sapeva di cavalli, soprattutto – pensavo quando avevo meno anni alle spalle che dita in fondo alle mani. Lo aspettavo come si aspetta un regalo annunciato, lo seguivo come una liturgia pagana fatta di gesti sempre uguali e ammantati di mistero. Fantasticavo sulle rotte avventurose delle carovane, rubavo pezzi di conversazioni ai circensi, parole sconosciute, speziate, spigolose. Appuntite come il tendone colossale che ospitava l’intera messinscena. Una casa viaggiante, una famiglia di artisti, un sottofondo musicale perennemente risuonante: mi sembravano promesse di una vita favolosa, totalmente immune allo squallore e dalla noia. Le luci, i tamburi, i lustrini. Gli occhi bistrati delle contorsioniste e le mani degli acrobati, dure di nodi e bianche di talco. I giochi di prestigio e il fuoco dei saltimbanchi. Bellezza e magia.
Poi, ogni anno, arrivavano loro. Tigri ed elefanti, serpenti e dromedari. Leoni, ippopotami e zebre. Un orso, una volta. Mi piacevano, certo. Avevo sette, otto anni. E dopo un anno di gatti randagi, cani al guinzaglio e pesci rossi, il fascino ferino di quelle bestie gigantesche era irresistibile. Profumava di Kipling e di Walt Disney, raccontava echi di giungle e di savane lontanissime. Avrei dato qualsiasi cosa per sfiorare una zampa, per affondare le dita in una criniera. Per sfregare il mio naso contro uno di quei musi umidi. Ma sopra ogni cosa, avrei fatto di tutto per aprire almeno una gabbia. Per spezzare una frusta, per sciogliere anche soltanto un nodo. Nel gusto del circo di Natale, gli occhi di quegli animali spezzati erano l’ingrediente più amaro. Sguardi vinti, senza traccia della fierezza che i miei libri raccontavano con tanta passione. Sguardi spenti, intossicati. Sguardi persi. Dopo ogni spettacolo mi restava sulle retine la memoria di pellicce spelacchiate e muscoli flaccidi. Nelle orecchie il rimbombo di ruggiti rauchi, sulla lingua una rabbia inutile contro umani senza rispetto. Non c’era magia, nelle dita dei domatori. Non c’era potenza nei loro strilli violenti. Eppure, dallo squallore delle gabbie luride distoglievo lo sguardo, e così proteggevo in qualche modo la magia del mio sogno di libertà, un anno dopo l’altro. Non ero pavida, ero soltanto piccola. E il circo senza animali, nei primi anni Ottanta, non era roba per bambini della provincia meridionale. Non era un’opzione, semplicemente. Non esisteva.
Venticinque anni dopo, nonostante tutto, mi resta nella gola quel gusto di fieno e segatura, di cavallo e di noccioline. Quel sapore agrodolce di libertà agognata e violata allo stesso tempo. Quel sogno polveroso mi fa ancora compagnia, sotto Natale. La colpa pizzica un po’, ma il tempo ne ha addolcito i morsi. Mio figlio è piccolo, adesso. Nel suo mondo il nostro gatto è una tigre. Io spero che gli venga concesso, prima o poi, di veder danzare i sogni più dolci sotto un tendone a strisce. Ma senza animali spezzati a riempirgli le ciglia di lacrime.