Sei anni fa non mi sarei mai permessa di dirlo ad alta voce. Tenevo Davide neonato tra le braccia e il senso di colpa mi annientava. Mi sembrava indecente anche solo pensare di essere io ad ad avere bisogno di mio figlio. Mi sembrava un sentimento egoista, ingiusto, un moto ripugnante della mia anima meschina e fragile. L’amore materno è abnegazione totale e gratuita, dedizione incondizionata, dare senza aspettarsi in cambio niente.
Un genitore ama a fondo perduto, mi dicevo. Deve amare solo in questo modo. È stato atroce, in un certo senso, confrontarmi col mio limite. Scoprirmi incapace di un amore così trascendente e divino. Di sapere amare mio figlio, e sua sorella dopo di lei, “soltanto come un uomo”, parafrasando una bellissima canzone di Vecchioni.
È stato difficile dover riconoscere che anche io ho bisogno dei miei figli. Concedere a me stessa questo diritto. Smettere di sentirmi in colpa solo perché sento forte, da qualche parte sotto il diaframma, il bisogno della loro presenza, della loro compagnia, delle loro dimostrazioni di affetto. Perché ho bisogno, soprattutto, del loro amore.
Ancora adesso mi costa fatica ammettere che la mia relazione con Davide e Flavia non consta soltanto di quello che io posso dare a loro, ma prevede anche un viceversa. Stento ancora a sentirmi legittimata ad aspettarmi che la maternità risponda a dei bisogni che sono i miei. Mi sembra in qualche modo ingeneroso e puerile, ma tant’è. Io ho bisogno di Davide e ho bisogno di Flavia. Ho bisogno che stiano insieme a me, che mi abbraccino, che mi raccontino le loro cose, che mi considerino, almeno per adesso, speciale. Che mi amino con tutto il loro cuore e anche “più del mio più”, come dice mia figlia quando fa il verso a Rapunzel. Ho finanche bisogno, e questa è la cosa più difficile da ammettere, che loro abbiano bisogno di me, ora che sono ancora piccoli.
Ma se mi vogliono bene, questo no, non glielo chiederò mai.