Sottotitolo: solo gli idioti non cambiano mai idea
Prima di diventare madre ero convinta di sapere alla perfezione che madre sarei diventata. Una di quelle mamme tutte d’un pezzo, affettuose e presenti, ma granitiche nei loro principi educativi. Incrollabili come le Vele di Scampia. Magari non proprio inflessibile come Tata Lucia (e possibilmente manco frigida come la signorina Rottermeier), ma sempre capace di distinguere il bene dal male e di indicare alla prole la strada giusta, proprio come una torcia intermittente a risparmio energetico. Una specie di Mary Poppins stonata ma coi piedi dritti, insomma. Ma questo, per l’appunto, era prima. Mai cambiato tante opinioni come da quando mi hanno cavato mio figlio dal ventre.
Prendiamo l’allattamento. Sempre stata convinta di allattare, certo, ma anche di smetterla non appena lo avrei ritenuto “opportuno”. I bimbi grandicelli abbarbicati alla tetta mi facevano un po’ impressione, per dirla tutta (mai quanto le loro madri, comunque, che giudicavo morbose e lesive dell’autonomia dei propri figli) ed ero assolutamente sicura che “a noi non sarebbe mai accaduto”. Poi ho scoperto che l’OMS e la FAO – stiamo parlando delll’Organizzazione mondiale della sanità e l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, mica di Elisir e Medicina 33! – raccomandano di nutrire i bambini esclusivamente col latte di mamma per almeno 6 mesi, e di continuare ad allattarli, una volta introdotti gli alimenti solidi, anche fino ai 2 anni e oltre.
Stessa cosa per il cosleeping. Quando sentivo di genitori che dividevano il letto con la prole, mi partiva il sopracciglio, prima. Gli occhi roteavano spontaneamente, la bocca si storceva in modo incontrollabile. Intonavo un requiem alla loro vita sessuale, immaginavo scenari raccapriccianti di neonati soffocati da grovigli di coperte e pigiami a righe, compativo quei figli vittime di cotanto lassismo. Giudicavo male quelle madri e quei padri, in poche parole. E con la stessa presunzione emettevo la mia sentenza verso i bambini abituati a passare molto tempo in braccio, a essere portati in fascia o soccorsi tempestivamente quando piangevano: viziati e maleducati. Senza possibilità di appello.
Poi ho letto decine di pareri di pediatri e psicologi che sostengono con assoluta convinzione la necessità del contatto fisico costante tra neonati e genitori (la madre, in modo particolare), del cosiddetto “contenimento”. Convinti che soltanto rispondendo prontamente ai bisogni dei bambini molto piccoli – che si esprimono attraverso il pianto, inesorabilmente – li si possa aiutare a diventare degli adulti indipendenti e sicuri di sé, fiduciosi nel prossimo e capaci di esprimere i propri sentimenti e di gestire le proprie emozioni. Certi che ogni bimbo abbia i propri tempi per imparare a dormire da solo, come per mangiare, camminare, parlare, espletare le proprie funzioni corporali eccetera eccetera, e che rispettare questi tempi non significhi derogare al proprio dovere educativo di genitore, ma trattare i propri figli come delle persone. Sicuri che le richieste dei bambini, per lo meno quando sono molto piccoli, non siano “capricci”, ma bisogni reali, perché anche i nostri figli sono “competenti”, ovvero consapevoli, fin da subito, di ciò che vogliono e, cosa ancora più importante, di quello che va bene per loro.
Negli ultimi 8 mesi ho scoperto un altro mondo, fatto di cure prossimali, carezze, disponibilità e lentezza. Di ascolto e di istinto. Ma, prima di tutto, ho conosciuto mio figlio. Il bambino reale, diverso da quello immaginato. Un bambino che ho visto trasformarsi completamente nel giro di qualche mese, man mano che mutava il mio atteggiamento nei suoi confronti. Mio figlio che piangeva di continuo, disperatamente. Che detestava gli estranei, la folla, i luoghi sconosciuti. Che non dormiva mai più di 45 minuti di seguito e aveva difficoltà finanche a defecare, che guardava il mondo con un’aria sbalordita e corrucciata. Un essere umano nervoso e diffidente, spaventato, oserei dire. Fino a quando anche io, finalmente, sono diventata la madre che volevo essere davvero, molto distante dalla madre immaginata, con buona pace dei troppi benpensanti e della me stessa “di prima”. Fatta di viscere e pelle, di istinto e di narici. Una femmina di primate, figlia di figli di scimmie che portavano i propri cuccioli sulla schiena, per anni, che li allattavano finché erano cresciuti, che dormivano con loro nelle caverne, scaldandoli col calore del proprio fiato. Una madre che accorre subito se suo figlio piange, che gli offre il seno quando lui lo desidera (anche quando le costa una fatica indescrivibile), che lo addormenta accanto a sé, accarezzandolo e cullandolo. Che lo ascolta, lo aspetta e si fida di lui, che lo tiene nel mei tai quando non vuole più stare nel passeggino e lo lascia dormire appiccicato a lei. Che alla necessaria fermezza accompagna, sempre, una dose di pazienza che mai e poi mai avrebbe pensato di possedere.
Che sia stato davvero questo a trasformare Davide nel bambino sorridente e sveglio che è adesso, naturalmente nessuno potrà mai dimostrarlo. Ma io lo so che è così. E in ogni caso posso dire – con assoluta certezza, questo sì – che da quando ascolto anche la mia pancia, da quando ho lasciato andare il minuscolo grillo parlante che viveva nel mio cervello, io sono una madre più felice. E dormo anche tre ore di seguito, vi pare poco?
PS: Lettura consigliata: Alessandra Bortolotti, E se poi prende il vizio? Pregiudizi culturali e bisogni irrinunciabili dei nostri bambini, collana Il bambino naturale (2010)