Non sono stata una di quelle future madri che amano ciecamente essere incinte, che con un figlio in pancia si sentono “miracolate” o in stato di grazia. Ma di certo non ho odiato le mie gestazioni, fortunatamente entrambe serene e fisiologiche. Ho vissuto il mio stato come una fase eccezionale eppure “normalissima” del mio percorso di vita, come una condizione naturale e un’esperienza molto intensa. Non ci ripenso molto spesso, e non prevedo di avere altri bambini in futuro. Eppure, a distanza di anni, ammetto che esistono alcune cose che mi mancano della gravidanza.
gravidanza e parto
Ho taciuto la mia seconda gravidanza per oltre quattro mesi. Neanche mia madre, né le cugine che sono per me delle sorelle, sapevano che fossi di nuovo incinta. Una scelta che non tutti hanno compreso, e che qualcuno ha ritenuto sgradevole, se non proprio offensiva.
Ma le ragioni che l’hanno pretesa, quella decisione, sono tante. E per me sono state imprescindibili, all’epoca. Una riservatezza di fondo (sì, anche per una che ha un blog con tanti lettori), i viaggi in programma (e la volontà di evitare i commenti preoccupati e ansiogeni dei parenti), la necessità di proteggermi da eventuali battute (innocenti, ma per me potenzialmente dolorose) sul fatto che Davide allora aveva appena un anno. La voglia, soprattutto, di schivare la miriade di commenti, considerazioni, consigli e testimonianze che, per quanto tutti in ottima fede, avevano reso molto faticosa la mia prima gravidanza.
Perché la verità è che aspettare Davide, per me, è stato assai difficile sul piano emotivo. Anche se mio figlio era stato cercato, anche se io mi sentivo bene ed ero nelle condizioni ideali per diventare madre. La verità è che la mia prima gravidanza mi ha spalancato sotto i piedi una botola profondissima, che affacciava sulle mie insicurezze più oscure, su paure che mai avevo provato e dalle quali, forse, non riuscirò mai più a liberarmi del tutto. La mia prima gravidanza ha fatto venire al pettine tutti i nodi aggrovigliati dentro di me, inclusi quelli che non sapevo di avere, ha esposto al sole e al vento la pelle ancora scottata dalle esperienze del passato, da certi errori, da certi rapporti tossici e da tante, troppe pene autoinflitte. La verità è che ritrovarmi con un figlio attaccato per l’ombelico ha riaperto dolorosamente tutti gli ombelichi che avevo dovuto annodare nella mia vita. Ha riaperto metaforicamente il nodo che mi aveva separato da mia madre, tanti anni prima. Mi ha scaraventato nel pozzo nero delle mie fragilità. Sono stata male. Oppressa dall’angoscia e dalla solitudine. Ossessionata da paure inconfessabili. Depressa, forse. Incapace di difendermi da certe situazioni, da certe parole, da certe considerazioni che mi riempivano la testa di fantasmi che non sono più riuscita a scacciare.
Così, la seconda volta, ho deciso di proteggere me stessa e il figlio che avevo nella pancia nell’unico modo che in quel momento mi sembrava possibile: chiudendomi in me stessa. Per qualcuno, quel lungo silenzio è stata una mancanza di fiducia, per altri l’esclusione del prossimo dalla mia felicità. Per me, semplicemente, è stata la scelta più istintiva per evitarmi preoccupazioni e paranoie superflue che, conoscendomi, non avrei saputo scansare in altro modo.
E ha funzionato, in qualche modo. Quelli in cui ho aspettato Flavia sono stati mesi di serenità e positività, nonostante la preoccupazione per una gravidanza così ravvicinata alla nascita del primo figlio. Mi sono serviti per ascoltare, nel silenzio totale, la mia voce. E per entrare in contatto con mia figlia senza interferenze. Mi hanno restituito una parte dell’esperienza che non avevo avuto la volta precedente, mi hanno permesso di acquisire un minimo di fiducia in me stessa e di autocontrollo. Lo rifarei senza esitare, nonostante le critiche, e qualche perdita, che mi è costato.
Le scelte degli altri, a volte, ci sembrano incomprensibili, se non addirittura esecrabili. Ma spesso è solo che non siamo in grado di intuirne le ragioni profonde.
Quando sei incinta, tutti danno per scontato che sia raggiante e in formissima. Sei radiosa, ti dicono. E tu, che magari non dormi da giorni, hai l’acidità di stomaco, la ritenzione idrica e tutte le paranoie del mondo, non sai se vogliono prenderti in giro o se hanno bisogno di un buon oculista. La verità è che non sempre benessere e gravidanza (e soprattutto benessere e puerperio!) sono un connubio così scontato, e che il mito della pelle perfetta, dei capelli luminosi e delle energie inesauribili non corrisponde per forza alla realtà. Io ho avuto due esperienze molto diverse tra loro, per esempio. Una prima gravidanza in cui fisicamente mi sono sentita sempre benissimo, ma ho avuto molte difficoltà di natura psicologica. E una seconda in cui sono stata quasi sempre serena, ma più in affanno dal punto di vista fisico.
Perché la verità è che sentirsi bene in gravidanza e nel post-partum dipende da tanti fattori, sia fisici che psicologici. Ed è possibile migliorare il benessere in gravidanza dando ascolto ai propri bisogni, rallentando e cercando di trasformare l’attesa in un tempo “per sé”. I miei consigli, basati sulla mia esperienza, sono pochi e molto semplici: circondatevi di persone che vi fanno sentire bene, concedetevi ritmi quotidiani più blandi (anche a costo di trascurare qualcosa e qualcuno), cercate di fare le cose che vi piacciono. Mangiate bene e passate più tempo possibile all’aria aperta, mantenendovi attive, ma riposando il giusto.
E se potete, partecipate a uno degli eventi Auchan Mamma&Benessere, in programma in diverse città d’Italia tra l’8 e il 13 febbraio, dedicate proprio al benessere, fisico e psicologico, delle future mamme e di quelle che lo sono appena diventate.
Gli appuntamenti in programma sono tre, in altrettante città italiane:
8 febbraio a Torino (Centro commerciale Auchan di Corso Romania, 460)
12 febbraio a Napoli (Centro commerciale Auchan di Giugliano, in Via Santa Maria a Cubito)
13 febbraio a Roma (Centro commerciale Auchan Porte di Roma, in Via Alberto Lionello, 201)
In ciascuna di queste tappe, le mamme potranno vivere una giornata speciale, tra momenti formativi, ludici e di confronto. Io sarò presente all’evento napoletano del 12 febbraio, che prevede un programma molto ricco e articolato:
10:00-16:00: “Prenditi il tuo tempo” Make up specialist a tua disposizione by COSMIA per una mamma sempre di fretta.
Belly Painting: trasforma il tuo pancione in una vera e propria opera d’arte.
Regalati un ricordo: uno scatto fotografico solo per te
10:00-10:50: “Sono una mamma? HELP ME! Come affrontare questo speciale momento” – confronto con Anna Bellissimo, Dottoressa Psicologa.
11:00-11:50: “Ci vuole Energia: come scegliere un’alimentazione corretta” confronto con il Dottor Roberto Uliano, Biologo Nutrizionista. Info: www.mybodylab.it
14:30-15:30: “Mamme in equilibrio!” Ritrova il benessere a ritmo di Zumba con i trainer del circuito MCFIT.
Tutte le mamme che parteciperanno all’evento riceveranno una borsa contenente dei prodotti omaggio, offerti da numerosi brand del mondo della prima infanzia.
Gli appuntamenti Auchan Mamma&Benessere saranno anche una bella occasione per conoscere altre future e neo-mamme, e scambiare chiacchiere, dubbi e domande sul tema controverso della maternità. Vale anche per la sottoscritta, naturalmente: ci vediamo a Giugliano lunedì 12 febbraio nel primo pomeriggio! Non mancate!
Io non so cosa voglia dire desiderare un figlio. Ho deciso di farne uno all’alba dei 31 anni, perché sapevo che “prima o poi ne avrei voluti”, che nel mio progetto di vita i bambini erano un tassello irrinunciabile. E allora ho valutato che quello fosse il momento migliore per provarci, anche se non sentivo questo desiderio impellente e struggente di avere un neonato tra le braccia. Dopo un mese, senza quasi pensarci, ero incinta di Davide. E pochi giorni dopo il primo compleanno di mio figlio, ho scoperto di aspettare sua sorella. Noi contavamo di riaprire il cantiere di lì a pochi mesi, e invece lei ha anticipato i nostri progetti, complice una singola notte di “imprudenza”, o meglio di consapevole fatalismo da parte mia e di suo padre (tanto un secondogenito era comunque in programma). Ho due figli, e non ho avuto il tempo di desiderare un bambino. Mi è stata risparmiata l’esperienza che tante amiche mi hanno descritto: l’attesa che ti consuma, la speranza che si rinnova ogni mese, la frustrazione che ti arriva addosso come una slavina, e che ti toglie il respiro. E il pensiero che torna sempre lì, attirato dal magnete potentissimo del desiderio incompiuto, del bisogno disatteso, dell’istinto castrato. Le domande inopportune, i commenti fuori luogo, lo strazio degli esami e delle cure. Ho avuto una fortuna immensa, un privilegio straordinario. Figli che sono arrivati quando io ho pensato che fosse il momento giusto, nel modo più semplice che esista, quello che gli umani conoscono dalla notte dei tempi.
Figli che non si sono fatti attendere, e che non sono, al contrario, piombati nella mia vita quando io, a diventare madre, non ci pensavo neanche lontanamente. Perché anche questo, mi è stato risparmiato: il calvario di fronte a un ritardo, l’atrocità del dubbio di fronte a un test di gravidanza inaspettatamente positivo. La fatica di accettare una maternità che non era programmata, o lo strazio di pensare di interromperla. In questo caso, però, la fortuna forse c’entra poco, e questo privilegio si chiama piuttosto contraccezione. Una priorità, sempre e comunque. Perché fare un bambino è una scelta che richiede sempre un pizzico di follia, ma che va ponderata cento volte. Perché un figlio, anche se lo hai programmato, ti sconvolge la vita, ti scoperchia l’inconscio, ti rivoluziona le giornate nel bene e nel male, nei secoli dei secoli. Scuote dalle fondamenta l’impalcatura stessa delle tue sicurezze, del tuo equilibrio, del tuo sentire. Ristabilisce le tue priorità. Espone a nuove prove – e inevitabili rischi – la coppia di cui fai parte e la tua vita sociale. Figuriamoci se non era previsto.
I miei due figli sono arrivati al momento giusto: ho avuto una fortuna immensa, e anche tanto buon senso. La prima non si può comprare, né prendere in prestito o a noleggio. Ma sul secondo, per fortuna, abbiamo tanto da poter fare.
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Sono stata incinta due volte. Due gravidanze perfette, senza sintomi pesanti o problemi particolari. Due gravidanze di cui ricorderò per sempre la sensazione di “essere abitata” e impegnata nella letterale costruzione di un essere umano. Di avere due cuori, due cervelli, due anime. Ma anche una serie di piccole cose, belle e brutte, tenerissime o molto sgradevoli. Ecco dunque le 10 cose che non dimenticherò mai della gravidanza.
1. La sensazione di non essere mai sola
È la cosa che ho amato di più dell’essere incinta. Avere sempre qualcuno con me, anzi: dentro di me. Una moratoria improvvisa e temporanea della mia atavica paura della solitudine. Un pensiero che mi dava forza e tranquillità, anche nei momenti più duri.
2. Il sonno mortifero
Che mai avevo provato prima (ad eccezione, forse, di qualche lezione universitaria di chimica organica alle otto del mattino) e che mai avrei provato dopo. Neanche nel delirio post partum delle poppate infinite e delle notti inesistenti. Tra tutti i sintomi della gravidanza, il sonno dei primi mesi è quello come ricordo come il più intenso e irresistibile. Una specie di narcolessia, una condizione alla quale è impossibile sottrarsi. Una specie di mano gigantesca che ti si cala sulle palpebre, una ninna nanna incessante dentro la tua testa ovattata.
3. La paura
Del parto. Ma soprattutto di quello che sarebbe accaduto dopo. Il timore di non essere all’altezza, di perdere troppe cose della mia vita “di prima”. Di soffrire e far soffrire. Durante la seconda gravidanza, la preoccupazione di non bastare a entrambi i miei figli e di non essere in grado di amarli come avrei dovuto.
4. Il peso dolce del gatto sul mio ventre
In barba alle remore ingiustificate di chi temeva per la mia salute. Mi piace pensare che i miei figli potessero percepire le fusa dall’interno. Che abbiano imparato a conoscere il loro fratello quadrupede fin da prima di nascere. Per questo, tra le cose che non dimenticherò della gravidanza, c’è sicuramente la sensazione tiepida di Artù addormentato sul mio petto, con le zampe appoggiate al mio pancione.
5. La voglia di birra
Destinata a farmi compagnia, pur con qualche strappo alla regola, anche nei lunghi anni di allattamento che sarebbero seguiti (ma adesso sto recuperando con gli interessi).
6. L’impennata della libido
Il più piacevole, senza ombra di dubbio, tra i sintomi della gravidanza. Forse l’unica cosa che potrebbe convincere il papà a fare un terzo figlio, a pensarci bene. Ma solo se decidesse di non tener conto del tracollo temporaneo che è seguito entrambe le volte durante il puerperio!
7. Le contrazioni
Perché è vero che il dolore del travaglio si dimentica. Ma ti resta il ricordo di averlo provato. Io, in particolare, non dimentico la sensazione che mi investiva subito prima dell’arrivo di ogni contrazione. L’attesa del dolore, che era essa stessa dolore. E poi il suono ritmico del tracciato, la grande palla su cui travagliare, le luci al neon e i miei calzini sotto la camicia da notte. La compagna di stanza che mi chiedeva perché mai non urlassi dal dolore.
8. Le domande invadenti
Poste con innocenza, se non proprio con affetto. Ma che per me, in quel momento così delicato e complesso, erano semplicemente oltraggiose. I commenti sulla pancia, l’interrogatorio sui sintomi, il paragone con le gravidanze altrui. Le richieste e i suggerimenti su quello che sarebbe accaduto dopo il parto. Piccole cose, capaci però di generare ansia, fastidio e fantasmi contro i quali, forse, combatterò tutta la vita.
9. L’odore del disinfettante
Con cui ero costretta a pulire la verdura che avrei mangiato cruda. Un fastidio e una perdita di tempo. Tanto che dopo il parto mi sono sempre guardata dal disinfettare indumenti, giocattoli e superfici varie.
10. La pelle e le unghie
Che per la prima volta in vita mia erano sane e forti. Perché nonostante l’ansia e lo stress, quando ero incinta le mani non me le rosicchiavo mai.
Post in collaborazione con lunastorta.it.
Ho avuto due figli in 21 mesi. Il mio corpo ha affrontato due gravidanze (e due cesarei) in meno di due anni. Ho allattato il primo figlio per un anno e mezzo, la seconda sta per compierne due e mi chiede ancora il seno giorno e notte. Il mio è un corpo da mamma.
Sono stata fortunata, ho preso 11 chili quando aspettavo Davide e meno di 10 con Flavia. E sono una di quelle che nei primi mesi di allattamento dimagrisce mangiando come un bue. Sono stata fortunata, ma il mio è comunque un corpo da mamma.
Non vado in palestra e non ho mai ricominciato a correre, anche se macino chilometri a piedi ogni giorno e mi riprometto ogni domenica sera di cominciare, l’indomani, ad allenarmi a casa. Lo farò, prima o poi. Nel frattempo, il mio resta un corpo da mamma.
Se contraggo gli addominali, riesco a sentirli con le dita. Ma sopra i muscoli sopravvive uno strato soffice che mi ricorda il luogo in cui sono cresciuti i miei figli. Non mi piace guardarla, quella crisalide di carne rilassata che sembra gelatina. Qualche centimetro sotto l’ombelico ho una cicatrice, una doppia cicatrice, a cui corrispondono, nelle profondità del mio corpo, altri cinque doppi tagli, aperti da un bisturi e ricuciti da un ago: i muscoli, il peritoneo e tre strati di utero. Non è simmetrico, quel segno nodoso sopra il pube, dal lato sinistro hanno tirato di più perché quando è nata mia figlia ero sotto anticoagulanti e la ferita, da quel lato, stentava a chiudersi. A sinistra, sopra il taglio, la pelle è così tesa che sembra trasparente come una medusa, si è formato qualche segno violaceo. Quelle smagliature che anche le due gravidanze erano riuscite a risparmiarmi. Quando piove la cicatrice mi prude. Non so se sia una coincidenza, non so se un giorno passerà. Questo, dopotutto, è il mio corpo da mamma.
Prima di restare incinta avevo una terza scarsa di seno. La proverbiale coppa di champagne. Dopo un’adolescenza problematica ero finalmente serena, era la taglia perfetta per non dover temere la forza di gravità. Avevo un capezzolo praticamente piatto, e l’altro non era molto diverso. Adesso la mia misura cambia continuamente, non scende mai sotto una quarta. Tra un seno e l’altro c’è una taglia abbondante di differenza. I capezzoli sono stati succhiati per anni, con avidità, dai miei figli (masticati, in qualche caso per fortuna molto raro), e sono solo un pallido ricordo di quello che erano prima. Sto sempre attenta a evitare che si intravedano sotto la stoffa degli abiti che indosso. Non ho idea di cosa resterà del mio seno, quando alla fine avrò smesso di allattare. Il mio seno sul mio corpo da mamma.
Sotto gli occhi ho due piccoli segni giallastri, se tolgo gli occhiali sono piuttosto evidenti. Si chiamano xantelasmi palpebrali, di solito compaiono dopo una certa età. Sono accumuli di lipidi: quando sono incinta il mio sangue si riempie di grasso, che ad un tratto affiora sotto pelle. Un segno per ogni gravidanza, ci vorrà il laser per riuscire a toglierli. Il trucco li camuffa un pochino, ma io so che sono lì. Segni gialli sotto il mio sguardo da mamma. I miei occhi, adesso, sono più miopi di un grado. L’allattamento prolungato, pare. Chi lo sa. Forse tornerà tutto come prima, o forse no.
I miei incisivi superiori, i miei candidi incisivi superiori, adesso hanno una forma leggermente diversa, con il bordo inferiore un po’ consumato. È che mi capita di digrignare i denti, da qualche tempo. Quando sono frustrata per l’ennesimo risveglio notturno, quando un capriccio mi mette alle corde e ho bisogno di una dose aggiuntiva di pazienza e di lucidità. Stringo i pugni e digrigno i denti, senza volerlo. Prima, non succedeva mai.
Alla base dell’anulare sinistro si è formato un piccolo callo. È il punto esatto in cui impugno il passeggino quando riporto mia figlia a casa dall’asilo. A quel dito porto la fede, che preme sulla pelle e l’ha fatta ispessire. Mani da mamma in un corpo da mamma. Le unghie, invece, sono rimaste uguali. Cortissime, rosicchiate, con le cuticole sfilacciate sopra le lunette. Le gravidanze sono state gli unici periodi della mia vita in cui sono riuscita a tenerle sane e curate senza alcuno sforzo. Chissà poi perché.
Comincerò finalmente ad allenarmi, un giorno o l’altro. Smetterò di mangiare a orari improbabili e senza criterio, cancellerò i segni sotto gli occhi e magari mi farò limare i denti. Ma il mio corpo rimarrà per sempre il corpo di una mamma. Perché è stato abitato, smosso dal di dentro. Riempito fino al massimo delle sue possibilità e poi svuotato all’improvviso. Perché ne hanno cavato via una parte, che adesso vive al di fuori di esso, e queste sono cose che ti cambiano per sempre. Il mio corpo ha fabbricato due esseri umani, sottraendo materiale a sé stesso per costruire ossa e sangue, nervi e pelle. Sono quasi quattro anni che il mio corpo stilla un latte zuccherino pieno di vita e di energia. Tutto questo lascia il segno, dentro e fuori, e va bene così.
Certe cose ti cambiano per sempre, nel bene e nel male. Il mio corpo di prima non esiste più, come ha cessato di esistere la persona che ero. Il mio corpo è e resterà un corpo da mamma. Fino all’ultimo dei miei giorni.
Fare un figlio a Napoli, oggi, è un po’ come fare un bel viaggio nel tempo. Come ficcarsi in una porta spazio-temporale e tornare indietro di una trentina d’anni almeno.
Comincia tutto quando scopri di essere incinta, e realizzi che il novantanove per cento delle tue amiche, parenti e conoscenti già madri, o a loro volta in attesa, ha, o ha avuto, un ginecologo. Privato. Se anche ti venisse voglia di farti seguire da un’ostetrica, dovresti riuscire a trovarne una in gamba (e se non sei brava con internet, potrebbe essere molto difficile, visto che tra le tue conoscenze sarà improbabile trovare chi ha un’esperienza diretta da raccontarti o un nome da consigliare) e sperare che non siate troppo distanti. Se non sei molto motivata, e sufficientemente informata, finirai come tutte, affidata semplicemente a un medico. Il quale programmerà per te almeno un’ecografia al mese, che tu farai senza battere ciglio perché tutte quelle che conosci hanno vissuto la gravidanza allo stesso modo, e poco importa che il Sistema sanitario nazionale indichi in tre il numero complessivo di ecografie necessarie nel corso di una gestazione fisiologica. Inizierai il corso di preparazione al parto relativamente tardi, magari dopo la trentesima settimana. È possibile che tu ti senta dire dall’ostetrica che dopo i primi venti giorni è meglio allattare a orario, e dalla psicologa che dormire insieme ai propri figli è estremamente dannoso per lil loro benessere mentale, tanto che la maggioranza degli adolescenti problematici lo è perché ha condiviso il letto con mamma e papà.
A un certo punto arriverà il momento di dare alla luce tuo figlio, e tu, quasi certamente, sceglierai di partorire nella clinica privata o convenzionata dove opera il tuo ginecologo. Opera, nel senso stretto del termine, perché non è improbabile, per usare un eufemismo, che tu venga sottoposta a un taglio cesareo. Più nel dettaglio, avrai il doppio delle probabilità di essere cesarizzata rispetto a una puerpera dell’Emilia Romagna, del Veneto o della Toscana, e il triplo rispetto a una mamma del Trentino Alto Adige. Ti diranno che tuo figlio è troppo grande o troppo piccolo, oppure che è posizionato male. Che hai il bacino stretto, che hai perso troppo liquido amniotico, che la gravidanza dura da troppi giorni o che il travaglio procede troppo lentamente. Ti spiegheranno che sei già stata tagliata una volta e quindi è meglio “non rischiare”, o che il cesareo è di per sé l’opzione più sicura per tutti. A prescindere. Più semplicemente, ti diranno in modo vago che tuo figlio rischia di stare male, che c’è qualcosa che non va col tracciato che rileva il suo battito cardiaco, e tu allora non avrai dubbi: acconsentirai all’intervento sapendo che la cosa più importante è che il tuo bambino nasca sano e forte.
A questo punto, o meglio dopo le lunghissime ore che avrete passato separati, ti ritroverai con tuo figlio tra le braccia e, se sei fortunata, incapperai in una puericultrice che sa fare il suo lavoro, che ti chiederà se vuoi allattare il tuo bambino e, se lo vorrai, ti aiuterà ad attaccarlo al seno in modo corretto. Ti incoraggerà se dovessero insorgere dei problemi, ti rassicurerà e ti inviterà alla pazienza. Se non hai fortuna, però, dovrai arrangiarti da sola, o sperare nel supporto di qualche parente che abbia un po’ di esperienza. È possibile che tuo figlio venga alimentato col biberon dagli operatori ospedalieri senza che tu neanche lo sappia. È possibile, addirittura, che tu venga espressamente scoraggiata dall’allattare esclusivamente al seno, o a richiesta. È possibile che ti mandino a casa con la raccomandazione di fare “una poppata ogni tre ore, non più di dieci minuti per lato”. È possibile, o per meglio dire addirittura probabile, che tu venga dimessa con la prescrizione di un’aggiunta di latte artificiale. Perché il latte non basta, perché il bimbo è piccolo e si stanca, perché ha l’ittero, perché è grande e ha troppa fame. Oppure perché tu hai i capezzoli piccoli, perché il cesareo ti ha prostrata, perché senti dolore quando tuo figlio si attacca.
Se non ci hanno pensato in ospedale, rimedierà presto il tuo pediatra, privato o della mutua. Che ti consiglierà di non allattare troppo spesso perché altrimenti tuo figlio rischia di avere le coliche, o di viziarsi, o di “scambiarti per un ciuccio”. Che ti raccomanderà il latte artificiale “così siamo sicuri di quanto mangia”, e soprattutto così non lo facciamo piangere di notte. Che, se tuo figlio è un po’ più piccino della media, ti inviterà a comprare una bella bilancia per fare la doppia pesata prima e dopo ogni poppata. E poi camomille e tisane: tisane per il mal di pancia, per saziarlo di notte, per farlo dormire più a lungo.
Se riuscirai ad allattare al seno in modo esclusivo, la gente intorno a te non farà che chiederti quando introdurrai finalmente il biberon. Qualcuno, candidamente, ti domanderà: “Ma come mai lo allatti tu?”. Quando tuo figlio avrà appena compiuto 4 mesi, in molti ti esorteranno a cominciare lo svezzamento, “almeno la frutta, per abituarlo al cucchiaino”. Sarà, molto probabilmente, lo stesso pediatra a indirizzarti allo stesso modo, a prescindere dai tuoi impegni di lavoro fuori casa. Frutta subito, brodino e pappa dopo un paio di settimane. Se ignorerai queste raccomandazioni, aspettando i sei mesi compiuti, qualcuno insinuerà con una battuta che stai affamando tuo figlio, o, per lo meno, che gli neghi il piacere di assaggiare qualcosa che non sia il solito latte. E se poi ti ostinerai ad allattarlo oltre il suo primo compleanno , ti sentirai chiedere da più parti: “Ma quando gliela levi, ‘sta zizza?”. Ti vergognerai, ti sentirai in colpa, diversa, forse sbagliata.
Fare un figlio a Napoli, oggi, vuol dire molto spesso dagli il nome del nonno paterno, anche se tu non ne avresti davvero alcuna voglia. Riportarlo a casa dall’ospedale vestito con un abito elegante, e avvolto in una coperta costosa, anche se hai il conto in rosso, e i soldi per quel minuscolo completo sarebbero più utili per i pannolini. Battezzarlo con una grande festa, anche se non entri in una chiesa dal giorno del tuo matrimonio. Tornare indietro nel tempo, di una trentina d’anni almeno. Fare un figlio a Napoli, oggi.
Erika Zerbini è genovese, ed è madre di cinque figli. Tre di loro stanno crescendo accanto a lei, le altre due sono morte mentre le stava ancora aspettando. Da allora, Erika cerca di condividere il più possibile la sua esperienza di madre interrotta (anche attraverso il suo blog Professionemamma.net e diversi libri sull’argomento), per aiutare altri genitori in lutto, e contribuire a rompere certi tabù e preconcetti che ancora sopravvivono intorno alla morte perinatale. Le ho fatto alcune domande, in qualche caso piuttosto crude: ecco come mi ha risposto.
Come stai, adesso? Come sei riuscita a superare il dolore di perdere un figlio, o almeno a conviverci?
C’è stato un momento preciso in cui ho capito che avevo mosso quel passo fondamentale per tornare a stare bene: ho accettato. In realtà mi ha condotto lì l’obiettivo che mi sono posta tanti anni fa e che nemmeno queste esperienze sono riuscite a cancellare: io volevo stare bene, volevo fare della mia vita una bella vita. Per tornare a stare bene l’unica via era quella di accettare e fare i conti con la mia umanità. Con la mancanza di controllo rispetto a questioni piuttosto importanti come la vita e la morte dei propri figli. Ho imparato a vivere senza di loro, a non soffrire di quel silenzio, a fare dell’assenza un luogo che sa di loro, non necessariamente doloroso, poiché anche per loro la morte è venuta solo dopo la vita, esistenze che abbiamo condiviso, di cui conservo ricordi dolcissimi e gioiosi. Da allora io sto bene, vivo pienamente.
Parli mai con la tua famiglia e i tuoi amici delle figlie che hai perduto? In che termini?
Sì, certo. A volte capita di parlarne. Nel periodo della loro attesa abbiamo condiviso molti momenti gioiosi: vacanze, gite, un Natale e anche un Capodanno. Molti momenti felici dettati anche dalla loro presenza. Quindi capita di parlare di loro mentre ricordiamo queste occasioni o riguardiamo le foto. Non è un tabù, perciò non esiste la difficoltà di non sapere come parlarne. Se ne parla normalmente, come si parla di un qualunque familiare che non c’è più e a cui abbiamo voluto bene.
Cosa avresti voluto che ti dicessero, mentre affrontavi i tuoi lutti, e invece non è mai successo?
Le persone più vicine a me hanno saputo essere di sostegno. Più che dirmi qualcosa, hanno mostrato interesse per me, per il mio dolore e mi hanno permesso di raccontare loro come stavo. Mi sono state vicino. Altro è giunto dalle persone meno in confidenza con noi, a partire dagli operatori della salute. La mancanza più grave è stata quella di non averci detto che avremmo potuto scegliere se seppellire noi nostra figlia. Lo abbiamo scoperto alcuni giorni dopo e la sensazione è stata quella di non avere avuto dignità di genitori, di famiglia. Abbiamo avvertito che per loro la nostra bambina non aveva la dignità di un figlio vero.
Cosa sarebbe cambiato, se vi avessero dato questa possibilità?
Cosa si fa quando si perde un familiare? È immediata l’organizzazione della sua sepoltura: un rito che per me ha un grande significato. Si è materialmente occupati a fare qualcosa, si prendono decisioni, si segue un percorso fatto di tappe, si giunge in un luogo, il cimitero, in cui si offre un posto certo al proprio caro. È un luogo in cui si può tornare con la sensazione di ritrovarlo. Per noi, questo percorso, pur molto doloroso, significava avere l’occasione di fare i genitori delle nostre figlie. Compiere tutti i gesti, rendersi materialmente conto che erano morte davvero, perciò erano vissute davvero.
Il commento, o il silenzio, che più ti ha fatto soffrire?
Di commenti inappropriati ne ho sentiti molti, ma quello più disarmante è stato: “Va be’, tanto ne hai altre due”. Avere altri figli azzera il diritto di soffrire per quelli morti. Anzi, è per i figli vivi che si deve andare avanti, come se non fosse altrettanto plausibile morire per quelli morti. È come se i figli non fossero davvero tutti uguali, non avessero tutti pari dignità e la loro singolare importanza, come se l’amore che suscitano dipenda dal loro essere in vita oppure no.
Che differenza c’è, secondo te, tra perdere un figlio in pancia e uno che invece è già nato?
In termini di dolore, credo nessuna. Nessun genitore è programmato per sopravvivere ai propri figli. È un fatto inconcepibile e difficilissimo da digerire. La sostanziale differenza sta nella reazione sociale. Quando si viene a conoscenza della morte di un bambino si prova dispiacere per i genitori che devono sopportare la sua morte, ci si domanda come potranno riuscirci, ci si stringe intorno a loro, si mostra incredulità, pena e si tenta di dare conforto. Si partecipa al funerale, si mostra la propria presenza. Si ricorda quel bambino, anche a distanza di tempo. Si riconosce il dolore dei suoi genitori, lo sconcerto per quella sorte nefasta. Invece, quando muore un bambino in attesa, non accade nulla di tutto ciò. È come se quel figlio non fosse mai esistito, non ha maturato lo status di ‘bambino’, piuttosto è considerato un tentativo non riuscito. Si può sempre ritentare, magari si sarà più fortunati. Questo ignorare e negare accresce il dolore, la rabbia, la solitudine. Una solitudine devastante: un ventre vuoto, braccia vuote, talvolta una casa da svuotare di cose che nessuno userà più e il vuoto delle persone intorno.
Quali sono i luoghi comuni più difficili da cancellare a proposito di lutto perinatale?
Uno dei luoghi comuni contro cui mi scontro è proprio quello di non considerare figli gli embrioni e i feti morti durante la gravidanza. Sono definiti prodotti del concepimento, materiale abortivo, legalmente sono definiti ‘mai nati’. Invece sono nati. Tutti. Nascere significa venire al mondo, essere dati alla luce’. Non occorre vivere per nascere. Non occorre nemmeno venire al mondo attraverso un parto naturale per essere considerati nati, vedi tutti i bambini nati da un taglio cesareo. Se cominciassimo ad ammettere che sono nati, anche se piccoli in termini di età e di dimensioni, finalmente non ci sarebbero più dubbi: le donne dalle quali sono usciti, in effetti, sono le loro madri e gli uomini accanto a loro, i padri. Insomma, siamo in presenza di una famiglia. Una famiglia chiamata a fare i conti con un dolore enorme, che ha bisogno di essere rispettata e accompagnata lungo le tappe del suo percorso di elaborazione del lutto.
Come possono, le persone vicine, aiutare una coppia di genitori che sta affrontando una maternità interrotta?
Legittimando il loro essere famiglia di un bimbo che non c’è più. Legittimando il loro dolore. Senza ignorare quanto è accaduto loro, permettendo loro di raccontare e raccontarsi. Non occorrono risposte o soluzioni: alla morte non c’è rimedio. È però molto importante esserci: non lasciarli soli.
Il principale riferimento in Italia in tema di lutto perinatale è l’associazione CiaoLapo Onlus, attiva dal 2006 nel sostegno alle famiglie che affrontano il dolore della perdita, nella ricerca scientifica e nella diffusione della cultura del lutto in gravidanza e dopo la nascita tra gli addetti ai lavori e nella società. Chiunque avesse bisogno di informazioni, sostegno, indicazioni pratiche su come gestire la morte di un figlio in utero o dopo il parto (sepoltura, procedure burocratiche, consigli etc) può consultare il sito web dell’associazione CiaoLapo.
Sono giorni, ormai, che gli italiani si accapigliano senza respiro su una questione che in realtà non esiste. Un grande classico della democrazia ai tempi di Facebook. Un sacco di gente, soprattutto quelli che si dichiarano contrari senza se e senza ma, sembra convinto che il Parlamento stia discutendo una legge che vuole aprire alle coppie omosessuali la possibilità di adottare dei bambini provenienti da altre coppie, orfanotrofi, etc.
Prima di entrare nel merito di cosa ne penso io – e non perché il mio parere abbia una qualche importanza, ma perché mi piacerebbe aprire un confronto sui temi di cui scriverò – mi limito a chiarire che il ddl Cirinnà prevede soltanto la possibilità di adottare il figlio biologico del proprio/a convivente (la cosiddetta stepchild adoption). Una misura pensata in primis, ma non solo, per garantire a un bambino che perda malauguratamente il proprio unico genitore naturale di continuare a vivere con l’altra persona che lo ha cresciuto, piuttosto che finire, in assenza di diritti del “vedovo/a”, affidato ad altre persone o strutture. Parliamo quindi di bambini che non solo già esistono, o esisteranno (a prescindere dalla legge e dalle convinzioni dell’opinione pubblica), ma che già vivono con due persone dello stesso sesso, maschi o femmine. Che questo piaccia o no.
Dirottare la discussione sulle adozioni gay tout court mi sembra un tentativo di strumentalizzazione, o quanto meno un grosso equivoco frutto di disattenzione o ignoranza.
Ma se è vero, come è vero, che “solo” di stepchild adoption stiamo parlando, coloro che gridano allo scandalo sono davvero convinti che sia meglio, per un bambino che ha già vissuto il dramma senza fine della perdita di un genitore, doversi affidare al buon senso di un giudice per non rinunciare anche all’altra persona (chiamatelo come vi pare, non ne faccio certo una questione ideologica) che lo ha cresciuto? Rischiare di trovarsi, all’improvviso e per sempre, privato di entrambe le figure di riferimento, anche se una delle due è ancora in vita, lo ama e non vorrebbe altro che prendersene cura? Se è questo, che pensate, vi chiedo senza alcun intento polemico di spiegarmi le vostre ragioni, perché per quanto ci pensi da giorni, non riesco davvero, non dico a comprenderle, ma proprio ad immaginarle.
Al di là dei contenuti della Cirinnà, comunque, è possibile che mi stia sbagliando, e che il dibattito sia dai più stato esteso consapevolmente alla adozione in senso lato, pur conoscendo perfettamente i contenuti del disegno di legge. Forse si teme che questo provvedimento sia una testa d’ariete per introdurre, in un secondo momento, maggiori aperture. Ammettiamo che sia così, e accettiamo di parlare delle adozioni intese in generale (ma la legge al vaglio del Parlamento non riguarda questo, l’ho già detto?). Si tratterebbe in ogni caso di bambini che non sarebbero sottratti a una famiglia “sana” e felice (ed eterosessuale), ma tolti da una casa-famiglia, da un istituto o da un orfanotrofio. Sarebbe meglio, piuttosto che dar loro una famiglia con due madri o due padri (o un genitore single, aggiungo io), lasciarli dove sono? Personalmente, non penso che qualunque famiglia sia meglio di un istituto, ma sono convinta che una famiglia amorevole lo sia in ogni caso. E se pensate che mi stia sbagliando, ancora una volta vi prego di spiegarmi serenamente il perché. I bimbi in attesa di adozione potrebbero essere affidati a coppie etero? Penso di poter dire che con una legge in materia più adeguata e moderna, sarebbero talmente tanti i figli a cui regalare una famiglia che non ci sarebbe alcun bisogno di dare precedenze o fare distinguo.
Estendendo ulteriormente il discorso, come è stato fatto da moltissimi in queste settimane, resta la questione che personalmente trovo più delicata. Quella dei figli non ancora nati, da mettere al mondo attraverso la cosiddetta maternità surrogata (ribadisco, ma ormai dovrebbe essere superfluo, che il ddl Cirinnà non fa cenno al cosiddetto “utero in affitto”). È solo questo il tema su cui non riesco ad arrivare a un’opinione definitiva, ma le mie remore non riguardano assolutamente le coppie omosessuali, quanto piuttosto la surrogacy in sé. Se penso a una madre gestazionale, penso a una donna che, pur non avendo un legame genetico col nascituro, lo tiene nel suo corpo per nove lunghi mesi. Lo alimenta, lo protegge, lo culla e gli parla (anche senza volerlo fare espressamente). Lo fabbrica letteralmente dal nulla, impiegando materiali – zuccheri e proteine, lipidi, acqua, minerali – provenienti dal suo stesso corpo. Produce tutte le cellule di quel nuovo essere umano, alcune delle quali saranno destinate a vivere e funzionare dentro di lui per anni interi. E soprattutto, il bambino che nasce da lei non può sapere che la voce che ha udito per mesi, il cuore che rimbombava intorno a lui, la donna che per 40 settimane ha scambiato con lui sangue e ossigeno e ormoni non è sua madre, e non lo sarà mai. Io non so come, di solito, funzioni praticamente una surrogacy, cosa accada di prassi al neonato subito dopo il parto. Ma se significa la separazione immediata e brusca del bambino dalla donna che lo ha tenuto dentro per mesi, ecco: da madre che sa quanto potente sia quel legame per il neonato, quanto consolatorio e salvifico il contatto con il corpo che lo ha covato e messo al mondo, onestamente mi resta qualche riserva sulla tecnica in sé stessa, a prescindere dalla composizione e dalle preferenze sessuali della coppia di genitori (anche perché si tratta di una tecnica cui ricorrono prevalentemente coppie eterosessuali). Non è una strada che percorrerei, penso di poter dire con ragionevole certezza.
D’altro canto, però – ed è questo il paradosso “ontologico” di fronte al quale il mio ragionamento si inceppa – l’alternativa sarebbe non permettere affatto a questi bambini di venire al mondo. Di essere pensati, concepiti, generati e amati. E cosa è peggio, per un essere umano? Nascere per essere separato dalla donna che lo ha portato nel ventre (ma poi amato per una intera esistenza da altre persone), oppure semplicemente non esistere? Io non sono ancora sicura della mia risposta definitiva. Voi che dite?
Cosa darei per avere una seconda possibilità. È questo che penso, ogni volta che torno con la memoria ai miei primi mesi da madre. Ogni volta che qualcuno mi comunica di aspettare un bambino, ogni volta che incrocio un neonato a passeggio con la sua mamma. Ogni volta, semplicemente, che incontro lo sguardo di mio figlio. Una seconda possibilità, per rispondere più tempestivamente alle richieste di Davide e assecondare da subito il mio istinto di madre, invece di soffocarlo disperatamente sull’onda dei consigli non richiesti e dei pareri discordanti su praticamente qualsiasi cosa.
È quello che ho pensato anche davanti alla tv, ogni volta che ho seguito il docureality “Ostetriche. Quando nasce una mamma” andato in onda su RealTime e realizzato in collaborazione con Chicco. Vorrei davvero avere una seconda possibilità, per cercare un aiuto professionale che risponda alle troppe domande di quei primi giorni, ma anche per selezionare da subito le indicazioni e i suggerimenti più adatti alla mia natura, ignorando quelli che – la prima volta non potevo saperlo – non si adattano per niente al mio modo di essere madre e donna.
Vorrei poter parlare alla neomamma che sono stata, così simile alle più insicure delle madri raccontate in tv, a cominciare da Agnese. Abbracciarla forte e dirle che non deve sentirsi sbagliata se tutto le sembra faticoso e difficile, che non è colpa sua se suo figlio piange tanto, che non deve temere di viziarlo se lo tiene in braccio, se lo porta in fascia o se gli porge il seno tutte le volte che lui richiede a gran voce.
Vorrei poter tornare indietro nel tempo e pretendere più empatia. Non solo dalle amiche e dalle parenti (a loro volta madri oppure no), ma soprattutto dal personale medico e sanitario che segue le neomamme, e che spesso è ancora troppo legato a una visione superata della maternità, fatta di poppate a orario, di regole da imporre al neonato, di “cattive abitudini da evitare” (impostazione che ho in parte rivisto nei consigli dell’ostetrica televisiva Paola, e che io non condivido).
Vorrei una seconda occasione, soprattutto, per non dimenticare. Per fissare nella memoria e nel cuore quello che lì per lì ti sembra interminabile, e che invece è effimero e momentaneo più di quanto tu possa immaginare. Per incastonare ogni attimo in un ricordo, cristallizzare nella mente tutti gli sguardi, le carezze, i vagiti, ed essere sicura di non perderli mai (per questo, soprattutto, ho invidiato le mamme di RealTime: una bella troupe televisiva a tua disposizione per filmare le prime settimane insieme a tuo figlio, se non è un promemoria questo…).
Non avrò un’altra occasione, per quanto io lo desideri.
Ma ho avuto un’altra figlia, e per questo non ringrazierò mai abbastanza. A suo fratello resta l’onere e l’onore di essere stato il primo: tanti privilegi di cui godere, ma altrettanti sbagli da perdonare. Tornare indietro non è possibile, ma in fondo al cuore so che lui capirà.