Erika Zerbini è genovese, ed è madre di cinque figli. Tre di loro stanno crescendo accanto a lei, le altre due sono morte mentre le stava ancora aspettando. Da allora, Erika cerca di condividere il più possibile la sua esperienza di madre interrotta (anche attraverso il suo blog Professionemamma.net e diversi libri sull’argomento), per aiutare altri genitori in lutto, e contribuire a rompere certi tabù e preconcetti che ancora sopravvivono intorno alla morte perinatale. Le ho fatto alcune domande, in qualche caso piuttosto crude: ecco come mi ha risposto.
Come stai, adesso? Come sei riuscita a superare il dolore di perdere un figlio, o almeno a conviverci?
C’è stato un momento preciso in cui ho capito che avevo mosso quel passo fondamentale per tornare a stare bene: ho accettato. In realtà mi ha condotto lì l’obiettivo che mi sono posta tanti anni fa e che nemmeno queste esperienze sono riuscite a cancellare: io volevo stare bene, volevo fare della mia vita una bella vita. Per tornare a stare bene l’unica via era quella di accettare e fare i conti con la mia umanità. Con la mancanza di controllo rispetto a questioni piuttosto importanti come la vita e la morte dei propri figli. Ho imparato a vivere senza di loro, a non soffrire di quel silenzio, a fare dell’assenza un luogo che sa di loro, non necessariamente doloroso, poiché anche per loro la morte è venuta solo dopo la vita, esistenze che abbiamo condiviso, di cui conservo ricordi dolcissimi e gioiosi. Da allora io sto bene, vivo pienamente.
Parli mai con la tua famiglia e i tuoi amici delle figlie che hai perduto? In che termini?
Sì, certo. A volte capita di parlarne. Nel periodo della loro attesa abbiamo condiviso molti momenti gioiosi: vacanze, gite, un Natale e anche un Capodanno. Molti momenti felici dettati anche dalla loro presenza. Quindi capita di parlare di loro mentre ricordiamo queste occasioni o riguardiamo le foto. Non è un tabù, perciò non esiste la difficoltà di non sapere come parlarne. Se ne parla normalmente, come si parla di un qualunque familiare che non c’è più e a cui abbiamo voluto bene.
Cosa avresti voluto che ti dicessero, mentre affrontavi i tuoi lutti, e invece non è mai successo?
Le persone più vicine a me hanno saputo essere di sostegno. Più che dirmi qualcosa, hanno mostrato interesse per me, per il mio dolore e mi hanno permesso di raccontare loro come stavo. Mi sono state vicino. Altro è giunto dalle persone meno in confidenza con noi, a partire dagli operatori della salute. La mancanza più grave è stata quella di non averci detto che avremmo potuto scegliere se seppellire noi nostra figlia. Lo abbiamo scoperto alcuni giorni dopo e la sensazione è stata quella di non avere avuto dignità di genitori, di famiglia. Abbiamo avvertito che per loro la nostra bambina non aveva la dignità di un figlio vero.
Cosa sarebbe cambiato, se vi avessero dato questa possibilità?
Cosa si fa quando si perde un familiare? È immediata l’organizzazione della sua sepoltura: un rito che per me ha un grande significato. Si è materialmente occupati a fare qualcosa, si prendono decisioni, si segue un percorso fatto di tappe, si giunge in un luogo, il cimitero, in cui si offre un posto certo al proprio caro. È un luogo in cui si può tornare con la sensazione di ritrovarlo. Per noi, questo percorso, pur molto doloroso, significava avere l’occasione di fare i genitori delle nostre figlie. Compiere tutti i gesti, rendersi materialmente conto che erano morte davvero, perciò erano vissute davvero.
Il commento, o il silenzio, che più ti ha fatto soffrire?
Di commenti inappropriati ne ho sentiti molti, ma quello più disarmante è stato: “Va be’, tanto ne hai altre due”. Avere altri figli azzera il diritto di soffrire per quelli morti. Anzi, è per i figli vivi che si deve andare avanti, come se non fosse altrettanto plausibile morire per quelli morti. È come se i figli non fossero davvero tutti uguali, non avessero tutti pari dignità e la loro singolare importanza, come se l’amore che suscitano dipenda dal loro essere in vita oppure no.
Che differenza c’è, secondo te, tra perdere un figlio in pancia e uno che invece è già nato?
In termini di dolore, credo nessuna. Nessun genitore è programmato per sopravvivere ai propri figli. È un fatto inconcepibile e difficilissimo da digerire. La sostanziale differenza sta nella reazione sociale. Quando si viene a conoscenza della morte di un bambino si prova dispiacere per i genitori che devono sopportare la sua morte, ci si domanda come potranno riuscirci, ci si stringe intorno a loro, si mostra incredulità, pena e si tenta di dare conforto. Si partecipa al funerale, si mostra la propria presenza. Si ricorda quel bambino, anche a distanza di tempo. Si riconosce il dolore dei suoi genitori, lo sconcerto per quella sorte nefasta. Invece, quando muore un bambino in attesa, non accade nulla di tutto ciò. È come se quel figlio non fosse mai esistito, non ha maturato lo status di ‘bambino’, piuttosto è considerato un tentativo non riuscito. Si può sempre ritentare, magari si sarà più fortunati. Questo ignorare e negare accresce il dolore, la rabbia, la solitudine. Una solitudine devastante: un ventre vuoto, braccia vuote, talvolta una casa da svuotare di cose che nessuno userà più e il vuoto delle persone intorno.
Quali sono i luoghi comuni più difficili da cancellare a proposito di lutto perinatale?
Uno dei luoghi comuni contro cui mi scontro è proprio quello di non considerare figli gli embrioni e i feti morti durante la gravidanza. Sono definiti prodotti del concepimento, materiale abortivo, legalmente sono definiti ‘mai nati’. Invece sono nati. Tutti. Nascere significa venire al mondo, essere dati alla luce’. Non occorre vivere per nascere. Non occorre nemmeno venire al mondo attraverso un parto naturale per essere considerati nati, vedi tutti i bambini nati da un taglio cesareo. Se cominciassimo ad ammettere che sono nati, anche se piccoli in termini di età e di dimensioni, finalmente non ci sarebbero più dubbi: le donne dalle quali sono usciti, in effetti, sono le loro madri e gli uomini accanto a loro, i padri. Insomma, siamo in presenza di una famiglia. Una famiglia chiamata a fare i conti con un dolore enorme, che ha bisogno di essere rispettata e accompagnata lungo le tappe del suo percorso di elaborazione del lutto.
Come possono, le persone vicine, aiutare una coppia di genitori che sta affrontando una maternità interrotta?
Legittimando il loro essere famiglia di un bimbo che non c’è più. Legittimando il loro dolore. Senza ignorare quanto è accaduto loro, permettendo loro di raccontare e raccontarsi. Non occorrono risposte o soluzioni: alla morte non c’è rimedio. È però molto importante esserci: non lasciarli soli.
Il principale riferimento in Italia in tema di lutto perinatale è l’associazione CiaoLapo Onlus, attiva dal 2006 nel sostegno alle famiglie che affrontano il dolore della perdita, nella ricerca scientifica e nella diffusione della cultura del lutto in gravidanza e dopo la nascita tra gli addetti ai lavori e nella società. Chiunque avesse bisogno di informazioni, sostegno, indicazioni pratiche su come gestire la morte di un figlio in utero o dopo il parto (sepoltura, procedure burocratiche, consigli etc) può consultare il sito web dell’associazione CiaoLapo.