Non può succedere solo a casa mia. Ditemi che non è così.
Prima i miei figli erano talmente piccoli da essere scarsissimamente autonomi. Il che era per certi versi una gran rottura, ma mi permetteva, stanchezza a parte, di fare quello che andava fatto per loro coi miei criteri e coi miei ritmi. Più o meno, diciamo. Ora che Davide e Flavia sono più grandi e hanno rapidamente acquisito importanti margini di autonomia (sul piano pratico, perlomeno), non devo più cambiare pannolini, lavare manine, riempire cucchiai, pulire bocche, mettere abiti, scarpine e soprattutto allacciare quei dannatissimi body. Fantastico, direte. Già. Peccato però che, essendo le attività quotidiane dei miei figli divenute appannaggio esclusivo o quasi dei diretti interessati, io ora passi il tempo a incoraggiare, catalizzare, scuotere, risvegliare dall’oblio. A fracassare le scatole a loro e a me, in buona sostanza.
Sono diventata un caspio di motivatore per bambini con tempi di reazione da bradipo avvinazzato. Il principe azzurro che risveglia la bella imbambolata, la Jill Cooper dei compiti a casa, la profetessa dell’Imperativo presente. L’enzima antropomorfo della masticazione (e deglutizione/vestizione/lavaggio/evacuazione). Un Peppiniello di Capua senza megafono né tutina di neoprene. E senza i bicipiti dei fratelli Abbagnale.
In pratica, passo metà delle mie giornate a pronunciare il nome di uno a caso dei miei figli – spesso quello sbagliato – seguito dal modo Imperativo, tempo Presente, seconda persona singolare (o plurale, all’occorrenza) dell’azione che loro stanno svolgendo con lentezza esasperante. O stanno del tutto trascurando di svolgere, nonostante l’impietoso scorrere del tempo.
“Davide, finisci i compiti”. “Flavia, fai la pipì”. “Davide, rimetti a posto i giocattoli”. “Flavia, smetti di andare in giro a piedi nudi”. “Flavide, vai a lavarti i denti”. “Davia, mangia quello che hai nel piatto!”. “Davide, Flavia, infilatevi il pigiama!”.
La mia principale mansione materna sembra essere diventata quella di scuotere i miei figli dalle conversazioni silenziose che intrattengono col proprio mondo interiore, nel tentativo di ricordare loro che devono fare una serie di cose imprescindibili, in tempi compatibili con la sopravvivenza umana. Avrei dovuto chiamarli Ugo e Ida, come suggeriva il buon Troisi. Forse sarebbero stati più solleciti, o almeno mi sarei risparmiata un po’ di fiato.
Poche cose, finora, mi hanno dato altrettanta consapevolezza del tempo che è passato da quando ero “solo” una figlia. E della diversa prospettiva dalla quale adesso mi trovo a vivere la mia quotidianità. Sono diventata, senza davvero rendermi conto che stava accadendo, quella che ripete istruzioni dalla mattina alla sera, sperando che qualcuno abbia la decenza di starla a sentire. O di fingere, perlomeno. Ditemi che non è successo solo a me, per favore. Mentite pure, nel caso, ma voi ditemelo.
Secondo me l’Imperativo Presente lo ha inventato una madre.