Mio figlio ha paura del buio. Sta per compiere sette anni e ha paura del buio.
Affronta senza riserve gli animali selvatici, le altezze vertiginose, gli aghi delle vaccinazioni, l’acqua profonda. Viaggia all’estero con la disinvoltura di un manager d’impresa, cambiando albergo ogni sera senza il minimo problema. Va a scuola con entusiasmo fin dal primo giorno, curioso e aperto alle novità. Eppure mio figlio ha paura del buio, e a volte fa un po’ fatica a relazionarsi con i bambini, specie se sono più grandi e se sono in gruppo. È ostinato, ma anche piuttosto insicuro, e questo finisce col calamitargli addosso la tracotanza di chi è più strutturato di lui, col trasformarlo nell’elemento fragile della situazione, quello più esposto alle battutine e al sarcasmo. All’ostracismo da parte della banda. Eppure, ogni tanto mi sorprende con una consapevolezza ragguardevole, per la sua età. Come quella volta in cui, tornando dal campo estivo, mi ha detto felice che amava giocare a pallavolo “anche se sono scarso, mamma”. Come quando proclama il suo diritto a fregarsene dei supereroi e delle macchine, anche “se piacciono a tutti i maschi”. Oppure quando infila nello zaino il suo quaderno preferito, nonostante sappia perfettamente che sarà preso in giro perché il quaderno ha in copertina un disegno “da piccoli”, o “da femmine”.
Mio figlio ha paura del buio, e questo ogni tanto mi preoccupa molto. Come ogni tanto mi preoccupa il fatto che lui sia molto incline al pianto, che tenda a dichiararsi “pessimo” o incapace, che ripeta con enfasi le considerazioni orribili sulla vita che a volte – mea maxima culpa – vomito fuori nei miei attacchi di nichilismo insanabile. Mio figlio ha paura del buio, e questo mi fa sentire profondamente responsabile, colpevole delle sue fragilità e delle sue insicurezze. Dell’ansia che non di rado lo attanaglia, perché lui, un po’ come sua madre, non si sente “mai abbastanza”.
Mio figlio ha paura del buio. Mio figlio piange molto. Mio figlio, a volte, ha qualche incomprensione nei giochi di gruppo dei coetanei. E la verità, forse, è che non c’è niente di così allarmante, o “patologico”, in questo. Che questo non fa di lui un individuo infelice, o predisposto a una futura infelicità. La verità è che tutti, adulti e bambini, conviviamo con delle nevrosi, con delle debolezze, con dei fantasmi di cui siamo più o meno consapevoli. Solo che quando si tratta dei nostri figli, tendiamo a raccontare (e forse a raccontarci) una storia diversa. A farne una narrazione parziale e univoca. Edulcorata e acritica. E così i figli degli altri, di quasi tutti gli altri, finiscono col sembrarmi, di solito, equilibrati e risolti, maturi, inseriti socialmente. Graniticamente “sereni”, per utilizzare una parola che piace tanto sfoderare alle madri, forse per rassicurare in primis se stesse sulla propria attitudine alla genitorialità. Sembrano più felici dei miei, se li guardo da lontano o attraverso le lenti dei social, delle parole che su di loro spendono i loro stessi genitori.
E invece mio figlio ha paura del buio, e a volte sembra che sia l’unico, tra i suoi coetanei. Peccato, o fortuna, che poi, a guardare le altre famiglie senza filtri o più da vicino, vengano fuori un po’ per tutti quelle umane e forse inevitabili crepe che sono tipiche di ogni persona, adulta o piccina che sia: e c’è chi rifiuta la scuola, chi non riesce a dormire, chi fa la pipì a letto, chi mangia troppo, chi ha degli scatti di rabbia o stenta a socializzare. C’è chi ha la fobia degli animali, del mare, della sporcizia. E chi, come mio figlio, ha paura del buio. Che venga fuori, come sempre, che nessun genitore è perfetto e nessun figlio – nessun essere umano – è privo di fragilità, di insicurezze, di limiti. Che venga fuori che nessuna esistenza, appena cominciata o già segnata dal tempo, è esente da momenti di infelicità, di paura e di solitudine. Solo che in pochi riescono a dirsi ad alta voce tutta la verità.