Quando Davide era piccolo, mi sono ostinata per mesi a farlo dormire nella sua culla, nonostante lui mostrasse che proprio non ci voleva restare. Altrettanto a lungo, mi sono sforzata di non farlo addormentare al seno, nonostante fosse la cosa che, palesemente, lo rendeva più tranquillo. Quando poi, nella canonica estate fra i due e i tre anni, abbiamo tentato di “spannolinarlo”, sono andata in crisi di fronte alle sue sfacciate resistenze, per non parlare dell’ansia con cui ho vissuto quello mi pareva un abbandono del ciuccio decisamente tardivo. Avevo paura di instaurare o di mantenere in essere, come avevo sentito dire decine di volte, “cattive abitudini” che sarebbero diventate poi molto difficili da eradicare. Di ritrovarmelo nel mio letto fino alla maggiore età, di non riuscire più a svezzarlo se non a prezzo di sacrifici e sofferenze notevoli.
Con Flavia è stato un po’ più facile, lei ha goduto da questo punto di vista di alcuni benefici che i secondogeniti ricevono in dote pur senza merito alcuno. Ha potuto contare su una madre un po’ più smaliziata e consapevole, già passata e riemersa relativamente indenne dalle forche caudine dell’inesperienza, dei luoghi comuni, dei consigli non richiesti. Per quattro mesi, per sua scelta, ha dormito solo sul mio petto o su quello di suo padre. Un letto tutto suo, quando era una neonata e manifestava la propria necessità assoluta e ineludibile di contatto, non glielo abbiamo nemmeno mai comprato. Eppure, anche al cospetto della mia seconda figlia, mi è successo spesso (e talvolta mi capita ancora) di perdere il senso della prospettiva e sentirmi sopraffatta dalla preoccupazione che un certo status quo, a causa della mia presunta “mollezza educativa” potesse “non cambiare più”.
Beh, sapete cosa vi dico? Quando ho sentito che per me era giunto davvero il momento di smettere di allattare i miei figli, semplicemente ho smesso. Per un figlio e poi per l’altra. Abbiamo sostituito un po’ alla volta, e senza traumi, le poppate con le coccole, le ninne nanne e le canzoni. Non appena Flavia si è sentita sufficientemente sicura e serena da lasciarsi andare un po’ di più al di fuori del pancione che era stata la sua casa per nove mesi, ha cominciato a riposare da sola, sempre più a lungo. Quando Davide ha capito di essere pronto a mollare il pannolino, alla veneranda età di tre anni e un mese, in pieno inverno e pochi giorni prima di un viaggio in aereo, banalmente, ce lo ha detto lui. E da allora non ne ha avuto più bisogno neanche di notte (ad eccezione di episodi che si contano sulle dita di una mano sola, non so, personalmente, cosa significhi raccogliere pipì dal pavimento o lavare lenzuola bagnate). E ora che i miei figli hanno 8 e 6 anni, nonostante la lunga stagione di incondizionato cosleeping, dormono entrambi nella stanza che condividono, stabilmente e senza problemi (tutti e due, non so se sia o meno una coincidenza, hanno completato spontaneamente questo passaggio attorno ai 6 anni, dopo una serie di progressi graduali, qualche regressione, sporadiche concessioni che volentieri concediamo ancora, sfruttando il letto aggiuntivo tuttora disponibile nella nostra camera da letto).
Quelli che sembravano pericolosi e inguaribili “vizi” sono stati ridimensionati dal tempo, dalla crescita, dalla naturale maturazione dei miei figli. Dal loro potente, istintivo e sano istinto di indipendenza e autodeterminazione.
Non sto dicendo, e ci mancherebbe, che i bambini vadano “assecondati” sempre e comunque. E neanche che non valga la pena tentare di incoraggiare ogni giorno la loro autonomia. Dico però che, forse, per la serenità dei bambini stessi ma anche di tutti i neo-genitori, potrebbe essere utile fare una riflessione collettiva su quali siano le reali istanze educative da perseguire e quali, invece, dei bisogni individuali profondi – diversi per ciascun bambino e per ciascuna madre – da assecondare o addirittura sfruttare senza troppe paranoie (dare il seno a richiesta, per esempio significava disporre di una soluzione infallibile e sempre disponibile di fronte a malesseri, spaventi addormentamenti difficili, stanchezze moleste e via dicendo). E liberarsi da una certa ossessione, che a me pare molto “italica” alla precocità e alle tappe prefissate. Un po’ contraddittoria, peraltro, visto che per tanti altri aspetti i bambini e i ragazzi italiani mi sembrano poi tra quelli meno “autonomi” e precoci in assoluto.
Sto dicendo, insomma, che magari vale la pena chiederci se abbia senso impuntarsi (e magari prendersi un mezzo esaurimento nervoso) perché il proprio figlio di pochi mesi dorma tutta la notte nella culla, o perché tolga il pannolino a 2 anni spaccati, per poi ritrovarsi a preparare il suo zaino in terza elementare, o a rifargli il letto quando ha già 15 anni.