Ho cominciato le scuole medie nell’autunno del 1991. Avevo computo 10 anni da pochi mesi, e ricordo distintamente la decisione che presi, in tacito accordo con le mie amiche coetanee: avrei smesso di giocare con le bambole, perché ormai ero “grande”. Un anno dopo, o forse due, capitai per caso in un negozio di giocattoli assieme a mia madre, e mi imbattei in una ragazzina poco più grande di me, che stava comprando, con emozione tangibile, una Barbie. Al momento di pagarla, tirò fuori una serie di involti di carta pieni di monete, li aprì e cominciò a contare. Quando si accorse che le mancavano poche centinaia di lire, la ragazzina si rabbuiò, ma la cassiera acconsentì a farle un piccolo sconto. Sono passati 25 anni, ma ricordo ancora l’espressione di gioia di quella giovane ragazza coi capelli lunghi, e la soddisfazione con cui spiegò alla giocattolaia di aver risparmiato quei soldi per mesi, moneta su moneta, per riuscire a comprare finalmente la sua agognata Barbie. Non dimenticherò, soprattutto, il senso inconfessabile di “invidia” che provai nei suoi confronti, io che mi ero negata il piacere di certi giochi perché avevo avuto fretta di crescere.
Mai avrei immaginato che per la generazione dei miei figli il tempo dell’infanzia sarebbe stato ancora più fugace e contratto, un lampo frenetico che si esaurisce in un pugno di anni. I bambini e le bambine di pochi anni – cinque, sette, otto – vestono come adolescenti, si acconciano (e si truccano, talvolta) come adolescenti, parlano come adolescenti. Allo stesso modo degli adolescenti si intrattengono e passano il loro, peraltro limitatissimo, tempo libero: YouTube, videogames, shopping, card da collezionare e con cui sfidarsi. I bambini e le bambine di pochi anni celebrano le ricorrenze, a cominciare dai propri compleanni, come, fino a qualche anno fa, avrebbero fatto degli adolescenti, se non proprio dei giovani adulti. Guardano programmi televisivi (cartoni animati, film, reality) che non sono segnatamente “da bambini”, ascoltano musica che, nelle intenzioni degli autori, non era certo stata pensata, composta e distribuita per un pubblico di under 10. I bambini e le bambine, ormai, giocano finanche con tipologie di giochi che sembrano concepiti e realizzati piuttosto per dei ragazzini: collezionabili, minuterie, merchandising e altri passatempi che comunque poco si prestano al gioco di ruolo che una volta, per quasi tre lustri, caratterizzava l’infanzia.
Capita addirittura che, se ti ritrovi con dei figli ormai in età scolare e a cui piacciono i trenini, le biglie, le bambole di stoffa e i cartoni della Pimpa, se ancora leggere loro una favola e cantare loro una ninna nanna è un gesto quotidiano, alla fine ti chiedi se ci sia qualcosa di strano in questo “infantilismo”, se i tuoi bambini non siano, per colpe tue, probabilmente, piuttosto “indietro” rispetto ai coetanei.
La verità è che la fretta esistenziale che avvelena i nostri giorni ha finito col contagiare anche le vite dei bambini. Si comincia quando sono appena nati, e sembra che qualcuno li abbia iscritti a tua insaputa a una gara di velocità, in cui conta imparare a dormire in cameretta il prima possibile, svezzarsi anzitempo, liberarsi precocemente del pannolino, addormentarsi da soli. E poi mettere i denti, imparare a camminare, a parlare (magari pure una seconda lingua), a nuotare, ad andare in bici, a leggere, a scrivere e a far di conto a tempo di record, preferibilmente prima “degli altri”. La parola d’ordine, a quanto pare, è crescere velocemente. Diventare grandi, o meglio comportarsi da tali. Smettere il prima possibile di essere “infantili”, dipendenti, di fare i capricci, di avere paura del buio. Smettere di aver bisogno di aiuto. Smettere il prima possibile, in buona sostanza, di essere piccoli.
Forse sono solo una donna di mezza età che solleva il sopracciglio di fronte alle nuove generazioni. Forse mia nonna avrà pensato di me e dei miei coetanei le stesse cose che ora mi ritrovo a pensare dei miei figli e della loro generazione. Ma a me sembra davvero che un po’ alla volta stiamo derubando i bambini della loro preziosissima infanzia, ossessionati come siamo dal mito contemporaneo della precocità e della (apparente) indipendenza. Forse ci fa piacere sentirci simili ai nostri figli, e allora, incapaci di ringiovanire a nostra volta, li catapultiamo vorticosamente in un quotidiano fatto di playlist, cosmetici e dispositivi elettronici. Oppure è semplicemente che occuparci di un bambino piccolo è faticoso in una maniera che non pensavamo possibile, e quindi non vediamo l’ora di poter smettere di farlo.
Non credo che ci sia qualcosa di immorale, in questa “precocizzazione” dei nostri figli. Mi chiedo soltanto se non stiamo negando loro qualcosa di fondamentale per la conoscenza di se stessi, per lo sviluppo della propria consapevolezza, dell’autostima e della capacità di relazionarsi col prossimo. Se non stiamo assottigliando pericolosamente il patrimonio di risorse affettive, psicologiche e cognitive a cui potranno attingere quando cresciuti lo saranno davvero. E soprattutto, più banalmente, mi domando: se vivono già come dei preadolescenti, cosa potranno fare queste creature tra una decina di anni?