Da quando sono madre, non faccio che pensare – tra le altre centomila questioni inutili in cui spreco energie fisiche e nervose ogni santo giorno – a come sarebbe stato continuare a vivere senza diventare madre. Mi conosco abbastanza bene da sapere almeno una parte della risposta: se non avessi generato il mio primogenito, ora starei di certo a lambiccarmi il cervello domandandomi di continuo come sarebbe stato avere un figlio.
L’insoddisfazione e il dubbio (o, per dirla come preferisco, la permanente ricerca della felicità) sono parte di me, del mio modo di andare avanti e di affrontare scelte e cambiamenti.
Per tutta la mia esistenza adulta, le domande, specie quelle senza risposta, sono state il risvolto scottante della medaglia luminosa della mia libertà. Allora, ogni tanto, mi capita di chiedermi come doveva essere la vita di una donna nata qualche decennio fa. L’infanzia e la prima adolescenza trascorse ad imparare tutti i segreti di quella che all’epoca si chiamava economia domestica. La consapevolezza che il proprio destino si sarebbe compiuto, con estrema probabilità, nel ruolo di moglie, madre e casalinga (lo stesso ruolo assegnato dalla vita alla propria madre, alle nonne, alle eventuali sorelle). Un marito cui affidare le scelte importanti, silenzi ossequiosi e una sostanziale subordinazione al padre dei propri figli.
La certezza di non avere alternative. Un orizzonte limitato e immobile in cui immaginare il proprio avvenire e la propria realizzazione.