Quella che sta finendo è stata una settimana faticosa. Per tante ragioni* è stata una di quelle settimane che attraversi in apnea, accontentandoti semplicemente che le giornate finiscano, una dopo l’altra. Sopravvivendo invece di vivere, che peccato mortale! Una di quelle settimane in cui perdi a tratti il timone, in cui ti allontani, nonostante l’ago tremolante della tua bussola interiore e le stelle che splendono impassibili sopra di te, dalla rotta che hai fissato sulla mappa della tua vita tanto tempo fa.
Nelle settimane così, non so se capiti soltanto a me, finisco sempre col fare del male alle persone che amo di più al mondo. A quella che ho scelto per la vita, a cui mi ritrovo a gridare addosso, ricevendone in cambio una dose altrettanto copiosa, stanchezza e paura, delusione e rabbia. E ai nostri figli. Con cui alzo la voce e perdo la pazienza, nonostante sappia che non solo non è giusto, ma è prima di tutto inutile: complica le cose invece di semplificarle, rallenta invece di accelerare, esaspera e riduce ulteriormente le energie. Faccio male a me stessa, in ultima analisi. Scavandomi la fossa nella collina sempre umida dei miei sensi di colpa.
Ma se a maltrattarmi e assolvermi di continuo sono abituata da oltre 30 anni di esperienza; se col padre dei miei figli condivido l’anagrafe, il pelo sullo stomaco e 15 anni di cammino, durante i quali ci siamo inevitabilmente feriti, strattonati, maledetti e puntualmente perdonati, consapevoli che la rotta che abbiamo tracciato insieme ci condurrà all’unico approdo che vogliamo raggiungere; sentire che sto trattando male i miei figli mi impone una condanna senza appello e senza attenuanti. Colpevole di abuso di genitorialità. La corte si aggiorna.
Come facevano le madri di una volta? Ad abbaiare contro i figli senza sentire che non serviva a niente, che non era giusto, che era una strada facile e la più battuta, eppure conduceva ad un vicolo cieco? Come facevano a ricattare, minacciare, inveire senza ritrovarsi- occhi sbarrati nel buio e testa immobile sul cuscino – ad aspettare per ore un sonno di cui pure erano in deficit costante come lo siamo noi adesso? Perché loro riuscivano a giustificare le piccole umiliazioni e prevaricazioni quotidiane imposte ai propri figli in nome della responsabilità e del dovere di educarli, mentre io mi sento meschina e inadeguata ogni volta che alzo la voce?
Forse la verità è che amarsi vuol dire anche farsi del male.
Pure i miei figli piccoli, senza saperlo e senza volerlo, certe volte sono per me causa di frustrazione, delusione, scoramento. Sofferenza, in un certo senso. E me lo leggono negli occhi, e se ne dispiacciono e si sentono in colpa. Ma dopo che ci siamo abbracciati forte, e ricordati a vicenda quanto ci amiamo, tornano nella serenita di una coscienza immacolata, ricominciano, vanno oltre. Ed è quello che probabilmente dovrei riuscire a fare anche io, a parti invertite.
Forse ammettere che certe volte non possiamo evitare di fare del male a chi amiamo è la sola cosa onesta da fare. Riconoscere che l’amore non ci impedisce di sbagliare, di ferire, di nuocere. Non ci rende immuni dall’oscurità che ci portiamo dentro, esseri imperfetti e deboli e fallibili. Però dobbiamo dircelo sempre, e chiedere perdono, e giurare ogni santa volta che sarà l’ultima. Credendo che sia davvero possibile, anche se sappiamo che non è così.
*Un viaggio stancante da cui recuperare, un piccolo fuso orario da gestire, tanti cambiamenti meteorologici in poco tempo, la novità del vasino da consolidare.