Il gioco preferito di Flavia è “fare il bebè”. Il bebè umano, ovino, bovino, felino, canino e anche pulcino, poco importa. Ogni cucciolo va bene, purché sia lagnoso al punto giusto e abbia la tendenza – oltre a “svegliarsi e addormentarsi” dieci volte in tre minuti, nonché “fare la cacca nel pannolino” con la frequenza delle peggiori gastroenteriti virali – a “farsi male” ogni 7 nanosecondi netti (e indovinate poi chi è la prescelta per accudire, addormentare, pulire e curare questo povero infante più sfigato del dolce Remì?). Il bebè ha la sua visione delle cure necessarie per ristabilirsi dalle proprie inenarrabili sventure, che poi sono le stesse che la piccola sceneggiatrice pretende quando si fa male nella vita reale.
E qui veniamo all’oggetto del post: la medicina secondo mia figlia di tre anni.
1. La pomatina made in Lourdes
Punture di zanzara, graffi, ematomi, unghie spezzate, ginocchia sbucciate e perfino i nei. Qualsiasi accidente, secondo Flavia, può essere affrontato con l’applicazione di generose doti di “pomatina”, possibilmente densa e pastosa. Lei non può saperlo, ma l’unguento miracoloso non è altro che una semplice pasta all’ossido di zinco, che però le dona sempre immediato sollievo manco l’imposizione di entrambe le mani da parte del Divino Otelma. Placebo spalmabile in tubetti da duecentocinquanta grammi.
2. Il cerotto universale
Che nella maggioranza dei casi viene sostituito da pezzi di normalissimo nastro adesivo trasparente. Lo scotch, proprio lui. Con cui lei si mummifica mani e piedi allo scopo di farli guarire da imprecisati disastri.
3. Il “massaggino”
Nella libera interpretazione di Flavia, una specie di shiatsu tailandese acrobatico, che puntualmente finisce col rendere reale il dolore immaginario che avrebbe dovuto curare. Peccato che questa tecnica sia quella che mia figlia predilige quando giochiamo a parti invertite, e farsi curare con tanta delicatezza tocca alle povere membra di sua madre (già anchilosate dalle mie posture da shinigami e dall’acido lattico che mi scorre dentro a giorni alterni da quando vado in palestra).
4. L’acqua santa
Ovvero quella che esce dal rubinetto di casa nostra. Che placa i singhiozzi (finti) e riporta la calma (temporanea), come per magia. Un po’ come la birra per me, ora che ci penso.
5. Bacini e carezze
Questa è scontata. A tre anni, non puoi che credere con tutta te stessa che tua madre e tuo padre (ma più tua madre, gnegnegnè) abbiano la capacità di guarirti da ogni male con baci e tocchi taumaturgici. Che poi è solo un modo semplice per dire: “Sto male, e sono spaventato. Ma se tu non mi lasci solo, il dolore e la paura si fanno più piccoli e meno minacciosi”.
Non è il nostro bacio, lo sappiamo bene, che salva i nostri figli. E nemmeno la carezza con cui asciughiamo le loro lacrime, il massaggio premuroso con cui frizioniamo i loro arti dolenti. È sapersi amati, sentirsi al centro delle preoccupazioni di un individuo altro, che li consola e li cura. La sensazione che qualcuno si faccia carico dei loro problemi come se fossero i propri. Con lo stesso trasporto, la stessa attenzione, la medesima partecipazione accorata. In fondo, è un po’ quello che accade ad ognuno di noi: illudersi di non essere davvero soli al mondo. Continuare a raccontarsi che è così, anche quando alle favole abbiamo smesso di crederci da almeno qualche decennio.