Prima che essere madre, prima anche di essere green, io sono soprattutto una che cammina a piedi. Da sempre. Sono cresciuta in una famiglia senz’auto. A parte le piacevoli gite motorizzate con zii e cugini, sempre disponibili anche a sostenerci nelle emergenze del caso, spostarmi sulle mie gambe è un fatto scontato da quando ero piccola. Quando ero una studentessa fuori sede, e poi una lavoratrice precaria lontano da casa, macinavo chilometri nel gelo e nell’afa, di solito con la mia musica nelle orecchie. Camminare era un esercizio di consapevolezza. Il momento in cui la solitudine smetteva di essere un un peso, e diventava un’opportunità. Una pausa dal mondo. L’occasione per mettere in fila i pensieri, concimare i sogni, sbrogliare almeno un po’ la matassa incasinata di sentimenti che mi porto dentro da quando ho coscienza di me.
La mia maternità, com’era inevitabile, è un viaggio che percorro prevalentemente a piedi.
Quando Davide era molto piccolo, lo mettevo nel marsupio la mattina presto e uscivo nell’umidità primaverile con un enorme sospiro di sollievo. Camminare con lui era un’affermazione della mia libertà. Una specie di fuga, non solo metaforica. La fuga da una casa diventata all’improvviso inospitale e asfissiante. Dai pianti incomprensibili di mio figlio, dalla mia inadeguatezza che sembrava amplificarsi ed esasperarsi in quelle quattro mura chiuse su di noi. Una fuga dalle visite indesiderate e dalle intrusioni da cui non riuscivo a difendermi come avrei dovuto. Camminare era la migliore risposta che potessi dare all’immobilità in cui mi sembrava di essere piombata, all’angoscia di quella nuova vita in cui non riuscivo a sentirmi lontanamente a mio agio. Nel fine settimana ci accompagnava anche il padre di mio figlio. Uscivamo prestissimo, i nostri passi echeggiavano nelle strade deserte. Camminavamo in silenzio, con la faccia di due sopravvissuti. È stato in quei mesi interminabili, che abbiamo scoperto per la prima volta il colore dei tetti del nostro quartiere, la foggia dei marciapiedi, la forma degli alberi nelle aiuole sgangherate. Camminare, all’epoca, ci ha aperto gli occhi su di noi. E ci ha quasi salvato la vita.
Quando aspettavo Flavia, camminare a un certo punto è diventato doloroso. La pancia si induriva di continuo, mi faceva male. Io mi fermavo a prendere fiato e poi ripartivo piano, con un’andatura da robot arrugginito. Facevo finta di niente. Non volevo fermarmi, non potevo permettermelo. Non avrei sopportato la preoccupazione degli altri, dipendere dall’aiuto altrui mi terrorizzava più di quelle contrazioni moleste e precoci. Davide a volte si rifiutava di andare avanti da solo. Lo sollevavo tra le braccia con uno sforzo immenso. Trascinavo il mio primo figlio e il mio corpo gravido sulla strada verso casa, chiedendo a mia figlia, dentro di me, di avere pazienza, di resistere. Di non fare scherzi.
Lei ha obbedito sempre, e quando è nata ho ritrovato il piacere di camminare, legata a lei da una fascia che era un bozzolo di tenerezza e di calore. Uno scudo che ci ha protetto dal male per tanto tempo. Il nostro vessillo, la nostra pelle condivisa. All’epoca, più che una famiglia, sembravamo una creatura mitologica a quattro teste. Flavia addormentata sul mio petto, nella fascia, e suo fratello sulle spalle di suo padre. Sentivo che saremmo potuti andare in capo al mondo, un passo dopo l’altro. E forse era vero.
Da molto tempo, ormai, cammino tutti i giorni per riportare a casa i miei figli dall’asilo. Prima ero sola con Davide, che mi ha mostrato cose che avevo smesso di vedere da decenni. Adesso c’è anche sua sorella, che ha rivoluzionato la nostra passeggiata pomeridiana con la sua vitalità e la sua ostinazione. Certi giorni ci occorre un’ora buona per fare un solo chilometro. A volte mi ritrovo atterrita, a metà strada, con un figlio che si dispera per ragioni che non capisco e l’altra che si rifiuta di andare avanti. Trafitta da sguardi di biasimo o di compassione. È un rito quotidiano, che spesso è il momento più dolce della giornata, ma ogni tanto si trasforma in una fatica immane. Ma è il solo modo che conosco per non perdermi. Per continuare a procedere e tracciare il mio cammino. A piedi, sulle mie gambe. Un figlio per lato, un passo dopo l’altro.
4 Commenti
tante volte mi sono ritrovata in quello che dici, ma oggi ancora di più.
ho avuto il primo figlio negli stati uniti, in un posto isolato dove eravamo solo io e lui durante tutto il giorno.
camminavo intorno al nostro ‘condominio orizzontale’ per ore con il mio bambino nel marsupio, ore che mi hanno salvata.
quando poi è nata la mia seconda figlia, questa volta in Italia, non ho smesso di camminare con lei addosso, anche se questa volta il contesto non era per nulla isolato.
ho passato le mie maternità camminando, l’unico modo per fuggire con la mente in un posto più familiare.
ora cammino con una quasi treenne in braccio e un più che cinquenne per mano …
Ieri la mia, che vede TUTTO, mi ha fatto vedere un bellissimo stormo di cigni che in questi giorni pare siano in transito a Trieste, Era il suo primo stormo e mi ha fatto riscoprire cosa sia la meraviglia.
Che meraviglia! <3
Bellissimo il tuo articolo. Anch’io adoro camminare con le mie figlie, anche se spesso diventa faticoso e richiede tempi biblici! Ma la loro presenza, spesso, mi apre a un modo nuovo di vedere i luoghi che sto attraversando. Se ti fa piacere leggi il mio post http://profumodifigli.com/la-nostra-primavera/.