Se avessi ricevuto dieci euro ogni volta che sono incappata in un articolo, un dibattito, una polemica o una conversazione sul tempo che una madre dovrebbe dedicare ai suoi figli (in contrapposizione alle ore di lavoro, ça va sans dire), credo che ora starei scrivendo da una baita di proprietà nei boschi dell’Alto Adige. E se ne avessi ottenuti altrettanti tutte le volte che ho letto o sentito qualcosa sul senso di colpa delle madri (per il tempo “sottratto alla famiglia” in favore del lavoro) forse questo post vi arriverebbe direttamente dal mio yacht privato alle Cayman.
Non c’è madre contemporanea che non abbia dovuto affrontare, per lo meno con la propria coscienza, il nodo spinoso della conciliazione tra lavoro e famiglia. Che non si sia sentita in qualche modo in dovere di giustificarsi per il fatto di lavorare troppo (o troppo poco, ma questo è un altro discorso) o perlomeno di spiegarne la ragione. Non c’è madre contemporanea che non si sia sentita giudicata da qualcuno per le sue scelte professionali – libere o obbligate che siano – e che non abbia dovuto sottrarre l’osso del collo dalla spada di Damocle dei sensi di colpa. Eppure, come se fossimo una schiera di api regine dedite alla partenogenesi, il dibattito sulla conciliazione tra lavoro e famiglia investe raramente – e sto facendo una scelta lessicale particolarmente magnanima – l’universo dei padri.
Per un padre, evidentemente, è un fatto scontato, inevitabile, forse addirittura doveroso (?) rientrare al lavoro con un figlio neonato che ancora evacua meconio, farlo da subito a pieno regime e trascorrere con la prole, nella migliore delle ipotesi, un’ora o due al giorno fino alla maggiore età. Per un padre, d’altro canto, è normale fare straordinari, essere reperibile anche fuori dall’orario di ufficio, portarsi il lavoro a casa, lavorare su turni, o se necessario nel weekend e durante le vacanze. Dedicando, magari, una quota del tempo residuo alla palestra, allo stadio, alla musica o a qualsiasi altro tipo di passatempo. Ed è assodato che un padre “si perda” la prima pappa di suo figlio, i suoi primi passi, le prime paroline, il primo giorno di nido, i compiti pomeridiani, le riunioni con gli insegnanti, senza che questo generi in lui rimpianto, senso di colpa o interrogativi di sorta. Finanche disertare una recita natalizia o un saggio di fine anno, sembra in qualche modo più accettabile, se a farlo è un genitore di sesso maschile.
Perché, a quanto pare, perlomeno alla mia latitudine, sopravvive e prospera ancora il pregiudizio per cui il dovere di occuparsi dei figli e garantire loro il benessere – fisico, emotivo e psicologico – sia una responsabilità in prevalenza materna. I padri, nella narrazione stereotipata che se ne fa da decenni, sono quelli deputati alla mezz’ora di gioco sfrenato quotidiano mentre la compagna è ai fornelli, quelli che fanno “scatenare” i figli quando mamma non guarda, quelli che, se proprio, per qualche ineffabile congiunzione astrale, la madre non è li a provvedere, li vestono in modo bizzarro o gli mettono nel piatto dei bastoncini di pesce bruciacchiati. I padri sono ancora descritti troppo spesso come dei giullari pasticcioni a tempo molto parziale, dei buontemponi mai cresciuti che sono bravi a intrattenere (per un po’), ma si defilano quando c’è da pensare ai compiti, al pediatra o ad altre cose “noiose” o sgradevoli. E se un bambino ha problemi a scuola, si comporta male o mostra un qualsiasi tipo di disagio, di solito la scure della colpa si abbatte sulla madre, rea magari di averlo “trascurato a causa del lavoro”.
Vi dirò quello che penso sull’argomento, anche se nessuno me lo ha chiesto e se rischio di essere fraintesa o risultare “impopolare”: io sono d’accordo sul fatto che delegare troppo la cura quotidiana dei figli a persone terze non dovrebbe essere la prima opzione. Che, ferma restando l’importanza cruciale della scuola, dei nonni, della famiglia allargata e degli amici, la responsabilità di tirare su un figlio debba essere assunta da chi lo ha messo al mondo e che, oltre che del famoso (e fondamentale) “tempo di qualità”, i bambini abbiano bisogno anche della vituperata “quantità”. Ma questo, nella maniera più assoluta, non può valere solo per le madri. Fatta salva l’esperienza dell’allattamento al seno, non esiste alcuna ragione biologica o naturale che giustifichi l’adagio per cui un bambino ha più bisogno della sua mamma che del suo papà, e non esiste alcun motivo per cui la cura quotidiana dei figli non possa e non debba essere suddivisa alla pari fra i genitori.
Non vuol dire, naturalmente, che madri e padri debbano avere sempre le stesse attitudini o essere del tutto sovrapponibili (ci saranno padri negati in cucina o mamme pessime nella lettura delle fiabe), ma che il dibattito nazionale attorno alla crescita dei figli dovrebbe cominciare a includere sul serio anche i genitori maschi. Che le politiche sulla famiglia dovrebbero finalmente andare nella direzione di una maggiore flessibilità del lavoro anche per i padri (telelavoro, orario fluido, lavoro su obiettivi etc), che sarebbe davvero ora di introdurre un congedo di paternità lungo e soprattutto obbligatorio, che non è più rimandabile un dibattito serio e complessivo sulla sostenibilità degli orari di lavoro. Nell’interesse della società e della famiglia tutta: dei bambini, che hanno bisogno di trascorrere (tanto) tempo anche coi papà; delle madri, che hanno il sacrosanto diritto di fare le loro scelte professionali, di condividere la fatica, il carico mentale e la responsabilità della crescita dei figli; dei parenti terzi, spesso coinvolti a tempo pieno, o quasi, nella cura di bambini non loro. E soprattutto dei padri stessi, che spesso stanno ancora rinunciando a fare i padri, e non sanno cosa si perdono.