Le finestre della piccola casa in cui vivo con Davide, Artù e il loro papà (edit: e con Flavia!) affacciano su una zona di orti urbani (quasi tutti ci hanno abusivamente costruito degli orridi box auto, ma questa è un’altra faccenda). Poche auto che passano lente, qualche venditore ambulante a richiamare potenziali acquirenti con molesti megafoni. Per il resto, in questo periodo dell’anno, il suono che entra nelle stanze di casa mia è un miscuglio meridionale di vento e cinguettii, trilli, frusci e gracidii. Il canto dello scirocco, spesso, la fa da padrone. Agita le fronde degli agrumi e quelle più alte del lauro e dei pini. Si insinua umido attraverso le persiane socchiuse, mi accarezza la fronte sudata, sussurra di Maghreb e deserti lontani.
Uno scoppio improvviso ogni tanto scuote la sera. I gatti che si contendono il diritto all’amore. Litigano – unghie e denti, zampe e occhi – per assicurare a se stessi un pezzo di eternità. Una progenie numerosa e, possibilmente, feconda. E alta si leva anche la voce dei merli, più dolce la melodia dei passeri e, solo se si ha fortuna, le grida temporanee delle rondini. Il pigolio dei nidiacei non si ode da anni. È un suono del tempo che fu. Come il passaggio dei pipistrelli, che un paio di decenni fa era tangibile, appena uno sfarfallio nel crepuscolo. Una presenza familiare e beneaugurante, misteriosa e consueta insieme. Adesso, il fruscio accennato delle loro ali membranose è soltanto un ricordo. Il fantasma delle estati passate ha la forma sagomata di un chirottero in volo.
Restano le cicale, almeno quelle. Ostinate nelle sere più calde, all’unisono. A volte sono fastidiose, ma la verità è che mi fanno compagnia. Ricordo rare civette, nella mia infanzia lunga e lenta. E pettirossi minuscoli, di cui ho dimenticato il verso. Qualche corvo. Ora non restano che cornacchie passeggere e, una volta ogni tanto, il canto di un’upupa solitaria. In compenso, la pioggia pomeridiana che batte violenta sui vetri e sulle mura di tufo giallo ha aggiunto una nota nuova a questa primavera troppo matura. Una nota afosa, umida, bigia. Una nota tropicale. Il fantasma delle estati presenti ha l’odore ancestrale della terra bagnata. Quando ero piccola io, l’acqua ai giardini bisognava darla ogni sera, per tentare di fare arretrare il caldo torrido e implacabile della parte centrale dell’anno.
In questo tripudio di voci già estive e sempre meno mediterranee, il respiro di un figlio è la vera novità. Regolare e rotondo, piccolo e ancora inodore. Il fantasma delle estati future ha la voce argentina di un bambino ancora piccolo. Che cerca nel cielo – è quello che spero – le ultime rondini in ritardo dall’Africa mentre ripete il nome nuovo che mi ha regalato. Sono tua madre, sì. Anche se a volte non ci credo ancora.