Vorrei vivere in un mondo in cui “come sei dimagrita!” non fosse considerato a prescindere un complimento. E neanche, se possibile, un normale argomento di conversazione. In cui smettessimo semplicemente di fare caso alle fisiologiche fluttuazioni di peso del prossimo, al punto da arrivare a farci suonare come “strana” qualsiasi osservazione sulla forma fisica di un’altra persona. Un mondo in cui l’informazione, il dibattito pubblico e le chiacchiere private prendessero a ruotare attorno al benessere psicofisico, al rapporto tra alimentazione e salute, alla sostenibilità ambientale del cibo, alla prevenzione di determinate patologie. In cui non ci sentissimo spinti a essere “magri”, tonici e “in forma” ma piuttosto a essere “sani” (e ci fosse intimamente chiaro che le due cose non sempre e non per forza coincidono).
Vorrei vivere in un mondo in cui scelte come quella di non tingersi i capelli grigi o non depilarsi le ascelle non venissero considerate come provocazioni, stranezze o atti di coraggio. Come vezzi anticonformisti, come manifestazioni di femminismo o addirittura dichiarazioni di una qualche indipendenza dalla “dittatura estetica” e dai “canoni mainstream”. Vorrei che fossero soltanto un’opzione come l’altra, altrettanto plausibile, neutra, normale, accolta dagli altri con sostanziale indifferenza. Senza alcuna connotazione di merito o di demerito, di presunta “forza” o, al contrario, di patetica scelleratezza. Vorrei che ciascuna (e ciascuno!) potesse fare le proprie scelte tricologiche, e magari cambiarle nel tempo, in assoluta e leggerissima libertà, senza doversi poi imbattere in commenti, osservazioni più o meno ipocrite e inevitabili dietrologie. Senza diventare in automatico un partigiano di una qualche fazione, un portabandiera di una certa filosofia di vita. Ma solo, banalmente, perché ha voglia di fare o non fare una cosa.
Vorrei vivere in un mondo in cui non esista il dress code. In cui tutti fossero d’accordo sul fatto che non c’è alcuna ragione naturale, fisiologica o “di rispetto”, per cui dentro un tribunale, in parlamento o ad un matrimonio sia necessario e nemmeno “opportuno” indossare una cravatta o un abito elegante. E, viceversa, andare a fare la spesa in abito lungo e tacco 12 non venisse considerata un’esagerazione, una stramberia o un atto di vanità. Vorrei vivere in un mondo in cui le uniformi avessero l’unico scopo di assicurare a chi le indossa una maggiore praticità, sicurezza e igiene, di garantire il massimo comfort o magari evitare sofferenze legate alle differenti possibilità economiche di ciascun individuo (penso per tante ragioni alle scuole, per esempio). In cui la reputazione di un avvocato, di una professoressa o perfino di una sposa prescindessero totalmente dallo stile degli abiti che sceglie per sé, e nessuno debba più sentirsi in imbarazzo o fuori contesto nel ritrovarsi con una mise più o meno elegante, ordinaria o alla moda di chi lo accompagna in una determinata esperienza.
Vorrei vivere in un mondo in cui fossero completamente rivisti i concetti di “decoro”, di “sciatteria”e trascuratezza. E che questi concetti non fossero più associati alle scelte personali in fatto di abbigliamento (la tuta è poco decorosa, il tailleur lo è abbastanza), acconciatura (la pinza per capelli non va bene, il fascinator invece sì), make up o calzature, ma solo all’accuratezza della propria igiene personale.
Vorrei, magari, vivere in un mondo in cui l’aspetto degli altri non fosse in alcun caso oggetto di giudizio, anche se inespresso. Un mondo in cui io stessa potessi liberarmi del tutto dai condizionamenti in tema di estetica e apparenze, che spesso persistono e mi insidiano nonostante i miei sforzi di consapevolezza e di libertà.
Vorrei vivere in un mondo che prima o poi esisterà, e che in alcuni luoghi e contesti – meno uniformati, meno provinciali e più disomogenei di quello in cui vivo io – forse esiste già ora. Il mondo che spero erediteranno e contribuiranno a costruire i miei figli.