Alcuni giorni fa mi hanno iniettato la seconda dose di vaccino. Il mio giovane marito under 40, poche sere prima, aveva ottenuto una fortunosa somministrazione monodose dopo una rocambolesca prenotazione all’open night vaccinale, alla quale ci eravamo applicati con un accanimento forsennato (come quando, nella vita precedente, c’era da prendere un volo in offerta o i biglietti di una partita speciale). Siamo tra i fortunati, insomma, che sono riusciti ad arrivare incolumi al momento della vaccinazione. Personalmente, e lo dico con un misto di incredulità, pudore e gesti apotropaici, non mi sono nemmeno mai trovata, ancora, nella condizione di dovermi sottoporre a un tampone per il Covid. Il che, in effetti, mi rende una specie di essere mitologico o di paria, vista l’esperienza collettiva che stiamo vivendo.
coronavirus
Il post che avete appena cominciato a leggere è troppo lungo e sostanzialmente inutile. Ma il bisogno di scriverlo è stato per me irrefrenabile. Mi attirerà probabilmente critiche feroci e antipatie definitive, ma non mi interessa. È il lamento della madre di due bambini di 6 e 8 anni che hanno varcato le soglie della scuola per appena 10 settimane negli ultimi 12 mesi (viviamo in Campania e sì: qui è andata così, attualmente siamo di nuovo in Dad da un mese e mezzo di fila, oltre ad avere parchi, piazze e lungomari chiusi. Le scuole, primarie incluse, sono state chiuse, per scelta dell’amministrazione regionale, anche in zona gialla e arancione, anche prima che venisse introdotto il sistema di classificazione “a colori”), con conseguenze forse marginali sulla loro formazione, ma disastrose sul piano del benessere psicofisico, della qualità della vita, e degli equilibri familiari.
Vi sembra una conclusione esagerata? La lagna insopportabile di una “mamma pancina”? È solo perché non ci siete passati, e non avete davvero la più pallida idea di cosa voglia dire davvero.
Come stanno i nostri figli?
Un anno della nostra vita è ormai trascorso in sgradita compagnia del Covid 19. Un anno che, nell’economia delle esistenze di bambini che di anni ne hanno 7 o 8, o magari ancora meno, ha un peso specifico non indifferente. Ci saranno tanti bambini, suppongo, che la vita “di prima”, la vita normale, attualmente neanche la ricordano.
Da molti mesi, ormai, di fronte alle piccole e grandi “crisi” dei miei figli, mi ritrovo a chiedermi se e quanto dei loro problemi dipenda effettivamente dalla pandemia, dalle limitazioni, dal sostanziale isolamento in cui vivono ormai da tanto tempo. E quanto, invece, non prescinda da questo, non sia magari una normale implicazione della loro crescita e del loro innato temperamento, con cui avremmo in ogni caso dovuto fare i conti. O ancora quanto, ahimè, non sia forse responsabilità di noi genitori, a nostra volta fiaccati da questa specie di incubo distopico nel quale siamo piombati un anno fa.
Davide e Flavia stanno bene, per carità. Ma non ho potuto fare a meno di notare la (ri)comparsa di fragilità, preoccupazioni e ansie: recrudescenze di antiche paure (del buio, della solitudine, dei brutti sogni), risvegli notturni, picchi occasionali di aggressività, onicofagia, periodiche difficoltà con il cibo, ansie alterne legate alle loro pur ampiamente soddisfacenti prestazioni scolastiche, e in particolare ai compiti per casa. Niente di estremamente allarmante, per il momento, né di totalmente estraneo al loro passato di bambini amati e sereni (mi auguro!) ma sensibili, come ce ne sono miliardi in questo pazzo mondo che abbiamo il privilegio di abitare.
Solo che adesso, inevitabilmente, mi ritrovo a inquadrare la situazione con un certo pregiudizio, osservando la realtà attraverso il filtro della consapevolezza. Avremmo vissuto le stesse difficoltà anche senza il lockdown, senza i compleanni in solitaria, senza la ridotta attività motoria, senza la separazione prolungata da tanti amici e familiari, senza gli interminabili mesi di Didattica a distanza (nell’ultimo anno, Davide e i suoi compagni di terza elementare hanno frequentato la scuola per 8 settimane in tutto, prima di finire, come siamo attualmente, di nuovo dietro a un computer)?
Non conoscerò mai la risposta, perché ovviamente la risposta non esiste. Il tempo ci dirà soltanto quante ferite ci resteranno da curare, per noi e per i bambini, inclusi quelli che, per fortuna, il virus non lo hanno mai incontrato da vicino.
Il 2020, nella mia memoria, resterà per sempre anche l’anno della Didattica a distanza. Con due figli in età scolare (Flavia ha cominciato la scuola primaria proprio nel mezzo della pandemia) e un’esperienza particolarmente intensa di lezioni a distanza (abitiamo nella regione italiana che ha fatto più ricorso alla Dad, dall’inizio dell’emergenza sanitaria), ho avvertito l’esigenza di rendere questa singolare avventura un po’ più sostenibile. Per l’ambiente, per il bilancio familiare e soprattutto per i miei piccoli studenti smart.
Ecco dunque, a valle di lunghi mesi di “scuola da casa”, i miei spunti per una Didattica a distanza più sostenibile:
1. Una stampante che rispetti l’ambiente
Era dai tempi dell’università che non mi ritrovavo a stampare così tanto, ogni giorno. Schede che le maestre inviano ai bambini, poesie da imparare a memoria, disegni da colorare, ma anche ricette da preparare assieme ai miei figli o istruzioni per lavoretti e “attacchi d’arte” (le consegne della DaD possono essere davvero molto fantasiose!). Un’esigenza spesso imprescindibile, a cui si può far fronte utilizzando un dispositivo concepito per ridurre l’impatto ambientale, la produzione di rifiuti e lo spreco di inchiostro e materiali. Come le stampanti della gamma EcoTank di Epson, che al posto delle classiche cartucce di inchiostro impiegano serbatoi ricaricabili ad alta capacità. Una tecnologia che permette di ridurre la quantità di rifiuti, di risparmiare tempo, di stampare in modo particolarmente efficiente (una ricarica di inchiostro è equivalente a 72 cartucce) e anche di ridurre i costi di stampa fino al 90%. Per una sostenibilità che sia davvero a tutto tondo.
2. Una postazione “di lavoro” ergonomica
Il lungo lockdown di primavera aveva evidenziato tutti i limiti organizzativi del nostro piccolo appartamento. Mio figlio Davide si era ritrovato a seguire le sue video-lezioni dalla nostra camera da letto, sistemato alla buona su un comò. Per questo, a giugno, il mio primo pensiero e quello di suo padre è stato di rivoluzionare la cameretta, in modo da garantire sia a lui che a sua sorella una postazione di studio confortevole e salubre con una scrivania ampia e seduta ergonomica. Per ovviare alla carenza di spazio, abbiamo sfruttato l’altezza, acquistando due letti a soppalco con scrivanie sottostanti.
3. Soluzioni smart e veloci
Accompagnare dei bambini ancora piccoli nell’esperienza della Dad può essere davvero molto impegnativo. Per quello mi sembra importante semplificarsi il più possibile la vita con soluzioni smart e di utilizzo immediato da parte di tutti, inclusi i diretti interessati. Un esempio? Collocare la stampante in uno spazio “neutro” o in un ambiente comune consente a tutti i membri della famiglia di utilizzarla senza disturbare o interrompere le attività degli altri. Anche una buona qualità della rete e dei dispositivi utilizzati può rappresentare un aiuto decisivo per rendere più fluide e sostenibili le varie operazioni: per quanto riguarda la stampante, trovo che siano una svolta irrinunciabile i modelli con connettività wi-fi, come le stampanti a ridotto impatto ambientale EcoTank di Epson. Nella gestione della Didattica a distanza capita ogni giorno di ricevere materiali, liste, schede e altri documenti direttamente via WhatsApp o sul registro elettronico. Poter lanciare la stampa direttamente dallo smartphone significa semplificare la routine quotidiana e rendere più autonomi i bambini nello svolgimento delle attività didattiche.
4. Un ambiente salubre e confortevole
Per una Didattica a distanza sostenibile nel lungo periodo (sigh!) sono importanti diversi parametri di confortevolezza e abitabilità dell’ambiente. A cominciare dall’acustica, che a casa nostra è sempre accettabile grazie a infissi e doppi vetri isolanti. La silenziosità della stampante, garantita da prodotti come le inkjet EcoTank di Epson, è un altro dei parametri da tenere in considerazione, specie se, come in casa nostra, viene attivata più volte al giorno da tutti i membri della famiglia. Godere di un minimo di privacy, inoltre, è a mio parere un aspetto fondamentale, anche per un piccolo “smart worker”. Io ho deciso di aggiungere una tenda oscurante in un punto strategico del nostro appartamento: pochi euro di investimento e installazione super veloce! L’illuminazione, per fortuna, non è mai stato un problema, dal momento che la nostra casa, al primo piano, è esposta a sud ovest e gode di un considerevole spazio libero dinanzi. Piuttosto, in alcune ore del giorno diventa indispensabile schermare la luce naturale con le tende, per evitare riflessi fastidiosi sul monitor e consentire una migliore visione delle lezioni online (io preferisco le tendine a rullo, che consentono anche di modulare l’effetto schermante). Per quanto riguarda infine la temperatura, la mia raccomandazione è di non surriscaldare l’ambiente, ricordando che sull’uso dei termosifoni esistono precisi parametri da rispettare (la temperatura interna della casa, per esempio, non dovrebbe superare i 20-22 gradi di media).
5. Didattica a distanza sostenibile: no agli sprechi
Rendere più sostenibile la didattica a distanza significa anche fare attenzione a evitare gli sprechi a qualsiasi livello, per ridurre l’impatto sull’ambiente ma anche le spese a carico della famiglia: carta, materiali di cancelleria, inchiostro e simili dovrebbero essere utilizzati con consapevolezza e attenzione, anche se con i bambini piccoli ci può stare un po’ di indulgenza in più. Davide e Flavia, per esempio, utilizzano penne cancellabili (come richiesto dalle loro maestre) con cartucce intercambiabili, in modo da poterle sostituire ogni volta che si esauriscono. Anche una stampante con serbatoio di inchiostro ricaricabile, come le inkjet EcoTank di Epson, permette di evitare sprechi di inchiostro e ridurre la produzione di rifiuti (4 flaconi valgono come 72 cartucce!). Per quanto riguarda invece i consumi di carta, piuttosto che fare stampe fronte/retro preferiamo utilizzare il lato posteriore dei fogli per disegnare, prendere appunti o scrivere bozze.
6. Occhio ai consumi elettrici
Una Epson EcoTank rappresenta anche una garanzia di risparmio energetico. A differenza delle stampanti laser, infatti, le stampanti inkjet della gamma EcoTank funzionano “a freddo” e non richiedono il riscaldamento del toner, permettendo appunto di ridurre il dispendio di energia. Per la scrivania, inoltre, è importante l’uso di lampadine a Led orientabili e con con temperature indicate per lo studio. E, come Davide non perde occasione di ricordarci, ricordarsi di spegnere il computer e la luce quando le lezioni online sono terminate.
7. Una routine sana
Cercare di rendere accettabile un’esperienza come la Dad prolungata – che per bambini piccoli resta a mio parere una forzatura – significa anche sforzarsi di mantenere una serie di sane abitudini, indispensabili, come sanno tutti i lavoratori “smart” di lungo corso, per preservare salute mentale, concentrazione e tono dell’umore. Il mio consiglio è di cercare di riprodurre il più possibile la routine che si manterrebbe con la normale frequenza scolastica: svegliare i bambini alla stessa ora, fare una regolare colazione prima di cominciare le video-lezioni, non derogare alle pratiche quotidiane di igiene personale, non consentire ai bambini di seguire le lezioni in pigiama.
Non sarà mai come andare a scuola, ma con questi accorgimenti la Didattica a distanza diventerà forse più sostenibile. Voi quali accorgimenti state adottando? Vi sembra che la scuola a distanza stia aumentando o riducendo l’impronta ambientale della vostra famiglia?
Post in collaborazione con Epson EcoTank
La vita di prima viene a trovarmi ogni tanto nei sogni, e lo fa nel modo più scontato possibile. Spesso sto salendo su un aereo, dentro quei sogni, guardandomi i piedi mentre mi arrampico sulla scaletta che oscilla leggermente nel vento. Mentre stacco l’ultimo passo in terra straniera e mi congedo con gratitudine e un po’ di malinconia.
Sogno i luoghi, della vita di prima. Stanze d’albergo, chiese in penombra, piazze inondate di sole. Sogno i libri, qualche volta. Le parole, le immagini, le sensazioni che ho provato mentre li leggevo. È una relativa novità, per me. Di solito i miei sogni sono popolati di gente, di voci, di incontri. Di abbracci e risate.
Non me la ricordo tanto bene, la vita di prima. O almeno, ho l’impressione che sia così. Le giornate del 2020 sono state talmente dense e ricche e faticose – tutte identiche e tutte così differenti l’una dall’altra – che questo singolo straordinario anno sembra essere durato un lustro o due. La vita di prima è come un posto, o una condizione, che mi sono stati familiari più o meno a lungo, ma che poi mi sono lasciata alle spalle: il luogo di villeggiatura abituale dell’infanzia, l’edificio in cui ho fatto il liceo, la casa della mia migliore amica delle elementari. La gravidanza, l’appartamento da studentessa in cui abitavo 20 anni fa. Sono incistati da qualche parte nella mia memoria, ma devo riflettere un poco per riportarli alla luce davvero.
C’è sempre stata, nella mia vita, una vita di prima, ora che ci penso bene. La vita prima dei figli, prima del matrimonio, prima di rientrare da Roma, prima che morissero mia nonna o mio zio o mio cugino o l’altro cugino e l’altro zio prima di loro. La vita prima che mi trasferissi a Viterbo, prima che mio padre avesse l’infarto, prima che smettessi di andare in chiesa. I temperamenti come il mio sono più inclini a misurarsi col passato che a immaginare il futuro: non c’è dolo, in questo, non c’è vergogna, anche se a lungo mi è parsa una specie di iattura. È come nascere con gli occhi marroni invece che neri o azzurri: per certe cose si è come si è, e va bene in ogni caso.
Non mi piaceva del tutto, la vita di prima, mentre la stavo vivendo. E non sono così ipocrita, né così retorica (eppure io retorica lo sono eccome!) da dire che adesso ho cambiato idea. Ci sono cose, della mia vita di prima, che non mi mancano per niente. Cose che mi aspettano in agguato – lurking, si direbbe meglio in inglese – alla fine di questa castrata e castrante vita in pandemia, e da cui vorrei potermi fare scudo con un bel vaccino nuovo. Mi offrirei senza esitare come cavia, per un vaccino così.
La vita di prima, domani, sarà quella che sto vivendo adesso. E finirà che non ricorderò bene neanche questo. Neanche questo tempo singolare, fugace eppure denso come melassa, che ora mi sembra così peculiare e a buon diritto “memorabile”. Perché così è la vita: lei procede, inarrestabile. Indifferente o potentissima, a seconda di come ci piaccia definirla.
Il passato ci rotola sotto i piedi e diventa futuro prima ancora, a volte, di darci il tempo di viverlo.
È la vita di oggi, che dovrei mordere forte e senza riserve. Quella che domani diventerà la vita di prima.
Se voi non ci foste, quest’anno senza tempo sarebbe stato più facile. Più veloce e più lento assieme, meno preoccupante. Incredibilmente meno faticoso. Avrei dovuto trovare il modo per riempire le giornate e scongiurare la noia. Per rompere il silenzio. Mi sarei allenata con regolarità, avrei mangiato bene, mi sarei concessa maratone di serie TV e avrei forse ripreso in mano la bozza di quel romanzo che mi si agita dentro da anni. Mi sarei risparmiata l’esperienza tostissima della Didattica a distanza, l’onere e la responsabilità di farvi da insegnante, il lavoro quotidiano di smistare centinaia di messaggi, di digerirli, a volte di decidere di ignorarli e basta.
Ma se voi non ci foste, quest’anno sarebbe stato ancora più insensato e vuoto. Avrei dovuto fare i conti col silenzio, con la noia, con le lunghe ore senza impegni. Avrei avuto molto più tempo e molte più energie per preoccuparmi della pandemia e delle sue conseguenze – effettive o potenziali – sulle persone che amo. Per realizzare che non mi è consentito viaggiare, organizzare viaggi o anche solo sognarli. Per sentire la mancanza delle persone che non posso incontrare. Se voi non ci foste, sarei stata per tutto l’anno a corto di baci e di abbracci, di fantasia e di colore. E soprattutto avrei avuto una ragione in meno per tentare con ogni fibra di mantenere salda, in qualche modo, la speranza. Nonostante tutto.
È sempre così, con voi due. Da sempre. Mi disordinate la vita e la casa, mi riempite la testa di rumore, vi prendete il mio spazio, il mio tempo e le mie energie. La mia presunta autonomia. Rendete le cose più complicate e più faticose. Eppure mi inchiodate alla vita come niente e nessuno era mai riuscito a fare. Mi richiamate alla necessità della speranza, mi obbligate alla ricerca della lucidità. Non si capisce mai, con voi due, se mi fate prigioniera o mi regalate la vera libertà.
Come vi è andata, nei mesi passati, con lo smart working? E come sta andando ora? Siete tra quelli che lavorano da casa, dopo lo scoppio della pandemia? Questo telelavoro è promosso o bocciato, secondo voi? E soprattutto, è davvero smart?
Uno smart working… poco smart
In quest’anno pazzo e ineffabile, non tutti hanno avuto la possibilità di sperimentare un vero e proprio “smart working”. Molti si sono trovati a dover fare per la prima volta esperienza di un telelavoro improvvisato, imbastito “in qualche modo” a emergenza ormai in corso, senza gli strumenti, la formazione e la flessibilità necessari. Molti hanno continuato pedissequamente a fare quello che facevano sul posto di lavoro, con gli stessi orari, le stesse riunioni, le medesime scadenze. E hanno dovuto utilizzare, magari, piattaforme, programmi e tecnologie messi a punto in fretta e furia, oppure mutuati da altre esperienze e da altre professioni. Una realtà, in effetti, che di smart non ha poi così tanto.
La mia (positiva) esperienza
Ma per fortuna non è stato così per tutti. Non è stato così per me, ad esempio. Che avevo già una lunga esperienza di telelavoro e che da due anni collaboro con un’agenzia digitale estremamente “smart”, appunto, concepita proprio per lavorare da remoto e con grande flessibilità, con dipendenti e collaboratori delocalizzati in luoghi diversi e avvezzi a lavorare per obiettivi, utilizzando piattaforme ad hoc. Tutte le fasi del mio lavoro avvengono senza problemi online: l’assegnazione delle consegne con le relative scadenze, le comunicazioni con colleghi e responsabili, la verifica di quanto effettuato, le riunioni etc. Per il resto, potrei fare il mio lavoro a qualsiasi orario e in qualsiasi luogo dotato di connessione a internet. Condizioni che non sono applicabili ad ogni attività o professione, certo, ma che secondo me potrebbero essere estese a tante categorie.
Wildling Shoes: virtuosi dello smart working
È il caso, per esempio, di Wildling Shoes, un’azienda tedesca di scarpe sostenibili ed etiche (ve l’ho presentata qualche giorno fa in questo post) che già da anni lavora in modo decentralizzato e offre a quasi tutti i suoi 160 dipendenti la possibilità di lavorare in modo agile, nei luoghi e negli orari che preferiscono. Nata appena nel 2015 da una coppia di genitori, l’azienda Wildling Shoes, che nel frattempo è molto cresciuta, si fonda proprio su un sistema di lavoro flessibile e intelligente, con dipendenti che si incontrano dal vivo solo di tanto in tanto e, sulla base di un progetto condiviso, portano avanti i propri compiti in autonomia. Una formula incentrata sulla fiducia reciproca, ma anche su competenze specifiche e strumenti adeguati – dal cloud per la condivisione dei documenti alle chat aziendali, passando per software che consentono la suddivisione e il controllo dei processi di lavoro – e che ha permesso un migliore adattamento in questo periodo di crisi globale.
Il futuro è smart?
Che ne direste, dunque, dello smart working, se questo significasse poter contare su tecnologie ad hoc, dispositivi adeguati e una flessibilità maggiore? Se voi, i vostri colleghi e i vostri superiori veniste formati al lavoro agile e messi in condizione di portare avanti i vostri compiti con una certa flessibilità oraria? Per me il lavoro agile, a prescindere dal Coronavirus, è il futuro. E anche se purtroppo penalizza fortemente alcune categorie economiche – penso a bar, ristoranti, gastronomie etc – credo che possa dare un contributo significativo anche in termini di sostenibilità ambientale e di conciliazione con la famiglia. Purché, però, sia davvero smart.
Voi cosa ne pensate? Quanto è stato faticoso riconvertire la vostra routine lavorativa, ammesso che abbiate potuto farlo? Vi piacerebbe lavorare da casa in pianta stabile? Lo smart working è promosso o bocciato?
Post in cooperazione con Wildling Shoes
Nella mia terra, per certi versi, questa “seconda ondata” della pandemia di Covid 19 è di fatto la prima. Nella passata, funesta, primavera – grazie al caso prima e al prolungato lockdown dopo – il virus non era arrivato a circolare in modo significativo nel territorio in cui abito, né in gran parte del sud Italia. Adesso, purtroppo, sta andando diversamente. Tutti noi conosciamo di persona qualcuno che è stato contagiato, quasi tutti abbiamo già dovuto sottoporci a un qualche tipo di test, e il “virus” è da settimane il principale, se non l’unico, argomento di conversazione. Mi sono resa conto di trovarmi in grande difficoltà emotiva e psicologica, più ancora che ad aprile. Allora ho provato a stilare un piccolo promemoria che spero possa aiutarmi a non “impazzire” in questa seconda ondata. E che condivido volentieri con voi (sperando di essere in grado di prestarvi fede!).
Primo: contagiarsi non è una colpa
O perlomeno, di solito non lo è. Conosco persone che rispettavano pedissequamente e con zelo le norme di distanziamento, protezione e igiene personale. Eppure, purtroppo, sono state infettate comunque. Il Covid 19 è molto contagioso, a volte non sono sufficienti nemmeno le precauzioni più accorte. Ovviamente, ciò non toglie che in qualche caso la propagazione del virus avvenga a causa di comportamenti irresponsabili, e che dobbiamo sempre cercare di proteggere noi stessi e gli altri nel modo migliore possibile, ed evitare atteggiamenti incauti.
Corollario: se contagi qualcuno, non sei un mostro
Il senso di colpa e l’ansia possono lacerarti se ti succede di contagiare qualcuno, oppure se hai timore di averlo fatto, magari senza alcun elemento concreto per pensarlo davvero. Ma la verità è che, se hai utilizzato ogni precauzione possibile, se sei stato attento e prudente, non puoi tormentarti per aver involontariamente veicolato l’infezione ad altri.
Secondo: il vero “nemico” è il virus
Le istituzioni avrebbero potuto fare di più per limitare la diffusione dell’epidemia? Alcune persone si comportano in modo troppo superficiale? I negazionisti contribuiscono a peggiorare la situazione? Il governo cinese avrebbe potuto diffondere informazioni più precise e tempestive? Forse sì. Probabilmente sì. Ma la colpa di quello che succedendo, ammesso che di “colpa” si possa parlare, resta del virus (che poi anch’esso, a ben vedere, non ha una volontà di infierire né una intrinseca perfidia, ma si comporta semplicemente come è programmato per fare). Cercare colpevoli aiuta forse a incanalare la rabbia,
Corollario: gli altri esseri umani non sono un pericolo
Qualche tempo fa mi trovavo con i miei figli in un parco cittadino. Era un orario poco affollato, e passeggiavamo nella zona più “naturale” e isolata del parco, per cui eravamo di fatto completamente soli. A un certo punto si sono avvicinati dei ragazzini (peraltro tutti provvisti di regolare mascherina) e Flavia mi ha detto allarmata: “Guarda, mamma: delle persone!”. Ho capito che esiste il rischio concreto che finiamo inconsciamente col ritenere i nostri simili un potenziale pericolo, dei “nemici” dai quali guardarsi. È una prospettiva davvero angosciante, per quanto mi riguarda. Proviamo a sorridere con lo sguardo al passante che incrociamo, a salutare chi ci precede nella fila alle casse, a non indagare gli altri con lo sguardo, per vedere se indossano correttamente la mascherina o se si toccano i capelli senza pensarci.
Terzo: non dobbiamo guardarci, purtroppo, solo dal Covid
Qualche giorno fa sono andata a correre in una zona isolata e periferica, in un orario “deserto”. Ho pensato che fosse la soluzione più sensata dal punto di vista della prevenzione del contagio, e probabilmente avevo ragione. Ma non avevo messo in conto quello che poi è accaduto: mi sono sentita insicura per la presenza di personaggi un po’ “loschi”, per il degrado attorno a me e per la totale solitudine, tanto da cambiare itinerario e rientrare a casa in anticipo. Si tratta solo di un esempio, forse neanche tanto calzante, per dire che l’attenzione nei confronti del Covid 19 non deve farci abbassare la guardia rispetto ad altri pericoli. Qualche esempio?? Palpiamoci il seno regolarmente, cerchiamo di mantenerci “in forma”, di non fumare o bere troppo (sigh!), di non mangiare troppo male.
Quarto: non parliamo sempre della stessa cosa
Questo 2020 è l’anno del Covid, certo. Ma la vita scorre più forte dell’epidemia. Ci sono bambini che nascono, amori che sbocciano, figli che crescono. Esperienze che meriterebbero la nostra attenzione ma a cui spesso non riusciamo più a dare importanza, travolti e angosciati dalla convivenza con il virus (io, per esempio, ho comprato la lavastoviglie: vi pare poco?).
Corollario: non dimentichiamoci di vivere
Lo avevo già scritto, a primavera. Anche se non sempre sono riuscita a mantenere la parola. Questi mesi ineffabili non ci verranno scontati dal computo complessivo di quelli “andati”. Nessun arbitro sancirà un lungo recupero per compensare il tempo che la pandemia ci ha preso senza chiedere il permesso. Ci tocca vivere a fondo ogni giorno, anche se non possiamo viaggiare, uscire, mangiare fuori o incontrare gli amici. Perché la vita che non viviamo oggi, sarà perduta per sempre.
C’è chi ha un lavoro stabile e garantito, ma si ritrova a farlo da casa mentre deve occuparsi di un bambino piccolissimo, e si sente sopraffatto dalla responsabilità e dalla fatica, fino al punto di non riuscire più a respirare. Chi ha contratto debiti per mettere a norma una palestra, un teatro, una sala di registrazione e che ora si chiede perché mai debba chiudere, consegnandosi all’indigenza, nonostante tutti gli sforzi compiuti. Chi ha investito ogni risparmio in un piccolo ristorante e adesso non riesce a dormire pensando alle nubi che si addensano sul proprio avvenire. Chi un lavoro ce lo aveva e lo ha perso, chi ha una partita IVA e non fattura niente da mesi, chi un’occupazione decente la stava cercando e adesso dispera definitivamente di trovarla.E c’è chi al lavoro non ha mai smesso di andarci: nella trincea degli ospedali sovraffollati e malsani, nella calca dei supermercati presi al sacco dalla folla spaventata, nelle fabbriche servite da treni e bus stipati all’inverosimile. E si chiede ogni tanto cosa abbiano mai da lamentarsi tutti gli altri.
C’è chi fa l’insegnante con passione, ma ha una patologia cardiaca, una immunodeficienza, un coniuge che cerca di guarire dal cancro o un genitore molto anziano di cui prendersi cura dopo il lavoro. E sente che entrare in un’aula piena di ragazzi rappresenta davvero un rischio inaccettabile. C’è chi si ritrova a insegnare a scrivere a suo figlio davanti a un tablet che funziona a scatti, e la ritiene una completa aberrazione. Chi ha perso il sonno perché il suo, di figlio, avrebbe dovuto laurearsi nei prossimi mesi, e ora non sa bene quali pesci prendere. E chi pensa con invidia agli uni e agli altri, perché è genitore di un bambino con bisogni speciali, che adesso saranno completamente disattesi – ancora più del solito – e chissà quale voragine cupa lasceranno. C’è chi i figli non li ha avuti, oppure li ha cresciuti da trent’anni, e quali possano essere le difficoltà odierne dei genitori non riesce nemmeno a immaginarlo. Così non può sottrarsi alla tentazione di minimizzare, di dirsi che a resistere ancora per qualche settimana, in fondo “cosa ci vorrà”.
C’è chi ha rimandato un matrimonio, chi non vede figli e nipoti da un anno, chi ha rinunciato a un progetto, a un trasloco, a un sogno qualsiasi. Chi sente mordere più forte una depressione che sperava di essere riuscito a tenere finalmente a bada. Chi non riesce a curarsi come dovrebbe da un cancro, da una malattia neurologica, da una disabilità o da una cardiopatia. E c’è chi annaspa intubato in un letto di rianimazione, chi ha perso un genitore, un nonno, un compagno, senza poterlo neanche salutare un’ultima volta. E trova che nessun’altra ragione sia sufficientemente importante per dolersi e recriminare.
Il dolore degli altri è dolore a metà, se tu per primo sei alle prese col dolore. E forse non è davvero colpa di nessuno. Forse è del tutto inevitabile, del tutto normale, che nella difficoltà sempre crescente si finisca col concentrarsi su se stessi. Con il tentare di sopravvivere col minor danno possibile, di mettere i propri figli in salvo sulla prima scialuppa disponibile. Forse è normale rivendicare il proprio strazio perché è l’unico che si conosce davvero, l’unico con il quale giorno e notte ci si trova fare i conti. Non è facile obbligarsi ad ascoltare, a compatire, a consolare chi sente di stare “peggio di te”, se tu per primo non stai bene, e avresti un disperato bisogno di qualcuno che ti ascolti, ti compatisca e ti consoli. Non è facile dare agli altri qualcosa, se quel qualcosa, da un tempo non esattamente breve, manca anche a te stesso. Si può solo decidere di provare il più possibile a tenersi per sé la tristezza, la rabbia, la paura. Consapevoli che gli altri, nessuno escluso, stanno già portando il loro fardello. Si può solo provare a resistere da soli, e sperare di riuscire a farlo abbastanza a lungo. L’empatia non è un lusso per i tempi bui. E il dolore degli altri, ora più che mai, è dolore a metà.
Come inquinare meno durante la pandemia? Tra prodotti monouso, mascherine e disinfettanti di ogni genere, la convivenza con il Covid 19 rischia di avere pesanti conseguenze anche sul piano ambientale. E così, dall’esultanza per l’ambiente “risanato” durante i mesi di lockdown globale o quasi, rischiamo di passare alla preoccupazione per i rifiuti e l’impatto sull’ambiente. Posto che di alcune pratiche non è al momento possibile fare a meno in alcun modo, ecco qualche semplice accorgimento che è possibile adottare per inquinare meno durante la pandemia.
Se possibile, mascherine lavabili
Ci sono situazioni in cui è opportuno e consigliabile utilizzare mascherine usa e getta con un’efficacia filtrante maggiore, e per determinate persone più a rischio questa è un’esigenza quotidiana imprescindibile. In altre circostanze, però, quando è richiesta una cautela in un certo senso più “moderata” (per esempio quando si prevede di restare all’aperto o di riuscire a evitare contatti ravvicinati con altre persone), è possibile optare per una mascherina lavabile. Scegliete in ogni caso prodotti di buona qualità, con più strati TNT ed eventuali strati idrorepellenti. Questo ovviamente permetterà di ridurre in modo considerevole la produzione di rifiuti non riciclabili e di inquinare meno durante la pandemia che stiamo purtroppo fronteggiando. Le mascherine lavabili vanno utilizzate con la stessa attenzione di quelle monouso, evitando di toccarle e conservandole con cura. Devono inoltre essere lavate spesso e sostituite definitivamente quando si deteriorano.
I guanti? Solo se necessario
Un altro sistema per inquinare meno durante la pandemia e ridurre la produzione di spazzatura consiste nel limitare allo stretto indispensabile l’uso di guanti in lattice. Nelle prime settimane dopo il lockdown, molti esercizi commerciali richiedevano ai clienti di indossare dei guanti usa e getta. Quest’obbligo è decaduto dopo qualche tempo, e ora, in linea generale, non è necessario portare dei guanti monouso per tutelarsi in misura maggiore. Fanno eccezione, sempre meglio ribadirlo, specifiche categorie professionali e situazioni particolari in cui occorre una protezione ad hoc.
Gel igienizzante: maxi formato o fai da te
La pulizia delle mani è diventata una questione ancora più pressante e prioritaria, da quando ci troviamo nostro malgrado a convivere con il nuovo Coronavirus. Per limitare l’impatto sull’ambiente di migliaia e migliaia di minuscoli flaconcini di gel igienizzante, si può optare per confezioni di formato maggiore, utilizzandole all’occorrenza anche per “ricaricare” le boccette più piccole. In alternativa, si può ricorrere alla ricetta dell’OMS per il disinfettante per le mani, puntando sull’autoproduzione e sui rifiuti zero. Entrambe queste soluzioni, tra l’altro, garantiscono anche un risparmio economico. Ricorda inoltre che non è sempre indispensabile igienizzarsi le mani con un disinfettante idroalcolico: se ne hai la possibilità puoi lavarti accuratamente le mani con acqua e sapone.
Inquinare meno durante la pandemia: la differenziata
Un altro aspetto da tenere in grande considerazione per cercare di inquinare meno durante la pandemia è l’attenzione alla raccolta differenziata. Le confezioni delle mascherine, per esempio, contengono spesso sia sacchetti di plastica che scatole o foglietti illustrativi in carta. Le mascherine stesse, invece, vanno smaltite nell’indifferenziato, inserendole possibilmente in un ulteriore sacchetto se si è positivi al virus, così come i fazzoletti utilizzati per soffiarsi il naso (qui le indicazioni ufficiali dell’Istituto Superiore di Sanità). Ovvietà delle ovvietà: nessuna mascherina dovrebbe essere dispersa mai nell’ambiente. Purtroppo può capitare a tutti di perderne una per strada, magari si può ridurre questo rischio abituandosi, piuttosto che a tenerle in tasca o “lanciarle” nella borsa, a conservarle in un apposito astuccio o sacchetto. Il che per inciso è importante anche dal punto di vista igienico.
Non abusare di disinfettanti ambientali
La pandemia da Covid 19 ha determinato, a livello globale, un drastico aumento del ricorso a pratiche come la disinfezione, sanificazione etc. Posto che si tratta di procedure fondamentali per arginare il contagio e al momento irrinunciabili, l’uso massiccio di disinfettanti ambientali presenta purtroppo una serie di rischi sul piano ambientale. Alcuni disinfettanti come la candeggina, infatti, oltre a essere potenzialmente tossici o irritanti per gli esseri umani, hanno un effetto molto inquinante sugli ecosistemi acquatici e sui microrganismi. Come regolarsi, allora, per evitare l’eccesso di disinfezione? Ho trovato queste raccomandazioni dell’ISS che si riferiscono in particolare proprio ai prodotti a base di ipoclorito di sodio (come la candeggina, appunto).
Voi adottate degli accorgimenti per cercare di inquinare meno nonostante la pandemia? Che tipo di compromessi non riuscite a evitare, e quali trucchi avete invece da suggerire?