Io sono figlia unica. Mi porto dietro, per questa condizione non scelta, una specie di intrinseca solitudine – o piuttosto una congenita paura della solitudine – che non mi lascerà mai. Non che sia stata mai realmente sola, eh. Non che mi sia mai mancato chi raccogliesse le mie confidenze o condividesse con me il proprio tempo, i giochi, la noia, i dubbi e via dicendo. Ho dei cugini che sono praticamente dei fratelli, e la mia casa è sempre stata piena di amici e di amiche (i miei genitori sono stati davvero molto intelligenti, in questo). Essere “sola”, per certi versi, mi ha anzi imposto di darmi sempre un gran da fare per cercare compagnia e confronto al di fuori del nucleo familiare. Di costruire legami, alimentarli, cementarli. Di tentare in tutti i modi di recuperarli quando sembravano vacillare. L’assenza di fratelli o sorelle, d’altro canto, ha fatto sì che imparassi a fare i conti – non subito e affatto facilmente – con certe responsabilità esclusive. Che mi abituassi, o per meglio dire che mi rassegnassi, all’esistenza di cose (timori, preoccupazioni, fantasie, incombenze, ma anche ricordi, soddisfazioni, aspettative) che non avrei mai condiviso realmente con nessuno.
Se sono ciò che sono, nel bene e nel male, lo devo anche a questo. L’infanzia per come la ricordo io è legata indissolubilmente a questa “mancanza”, che mi ha tolto senza dubbio alcune cose, ma me ne ha date tante altre. A cominciare dal tempo trascorso con i miei genitori, dalla loro attenzione esclusiva, dal rapporto solido, per quanto non privo di conflitti e contraddizioni, che ho potuto costruire con loro. Dal sentirsi comunque in qualche modo “speciale” dinanzi ai loro occhi di madre e padre.
Al di là di come sia andata oggettivamente, di tutti i bilanci che potrei tracciare a 33 anni di distanza dalla mia nascita rimasta senza repliche, comunque, io quel vuoto non ho mai smesso di sentirlo. Mi ha scavato nella mente l’interrogativo irrisolto di “come sarebbe stato se…”. Mi ha lasciato una specie di sottile frustrazione nel non conoscere una cosa che i più sperimentano normalmente nella vita, nel non poter usare certe parole, nel non avere idea di cosa si provi ad avere un fratello.
E poi, come dicevo all’inizio, quell’assenza muta si è tradotta (per quanto le cause possano sempre essere altre, per carità) in una paura invincibile della solitudine. Una paura che negli anni mi ha fatto sbagliare molte volte e, più in generale, ha condizionato pesantemente le mie scelte. Ci sono stati perdoni concessi solo per non perdere qualcuno, scuse chieste senza colpa, “primi passi” reiterati all’infinito, grumi di orgoglio ingoiati come bocconi di amarezza insopportabile, compromessi pesantissimi e tuttavia accettati. Sempre per evitare il rischio di diventare, appunto, un po’ più sola. E non sempre questo è stato un bene, direi.
Ho conosciuto, infine, un senso di responsabilità, per quanto fondamentalmente autoimposto, forse più gravoso di chi si trova a condividere il cammino con un fratello o una sorella. La consapevolezza di essere soli a dover rispondere, nell’eventualità, a certi bisogni, a certi desideri, a certe aspettative. Che non ci sarebbe stato mai nessun altro – nonostante la partecipazione e l’affetto sempre massimi della famiglia “allargata” – a poter tamponare, supplire, soccorrere, fare le veci dell’unica figlia esistente, che poi sarei io. Nessuno col mio medesimo ruolo che potesse all’occorrenza sostituirsi a me, alternarsi, riparare alle mie eventuali mancanze (consce o casuali). Far dimenticare i miei errori, riuscire dove io avrei fallito. O io o niente.
“Figlio”, nella mia famiglia, è un titolo che, nel bene e nel male, apparterrà per sempre alla sottoscritta e a nessun altro. Un grande privilegio, ma anche, per certi versi, un onere non trascurabile. E non posso negare che questo abbia avuto un peso importante nelle mie scelte di vita, per quanto nessuno mi abbia mai condizionato in maniera consapevole o volontaria.
È per tutti questi motivi che ho sempre saputo che non avrei mai avuto un figlio unico. Non per mia scelta, per lo meno. Che avrei dato la possibilità al mio primogenito di condividere i pesi e i regali della vita con un’altra persona, di trovare nella sua stessa casa la compagnia quotidiana, la presenza rassicurante, il confronto, la dialettica, la solidarietà e la contrapposizione che io ho dovuto sempre cercare all’esterno.
È per questo che nonostante la fatica delle notti insonni e dell’allattamento prolungato, nonostante il prezzo alto – in termini di libertà perduta, leggerezza e autonomia sacrificate – che si paga per crescere un figlio, nonostante la paura e la tentazione, a tratti fortissima, di imboccare la strada apparentemente più “comoda”, Davide avrà presto un fratello o una sorella.
Molto presto. Prestissimo. Tra due mesi e poco più.
E che Dio ce la mandi buona.