Le parole che non mi hai detto, per mesi e anni, sono ciao, acqua e cane. Quelle che invece hai pronunciato con tempestività inspiegabile (all’inizio in modo incerto e quasi incomprensibile, e poi via via più distintamente) sono incastrato, dentifricio, computer, liberato.
Le parole che ancora non dici, e che non dirai mai, sono bua e è-cacca, botte e baubau. Quelle che formuli con maggiore trasporto, senza dubbio, sono luna! e maaaare, graaande (e quando le dici ti riconosco, figlio col naso per aria e tanta voglia di immenso).
Quella che ripeti più spesso, non credo di sbagliarmi, camion!. Quella che storpi in modo più eclatante, e chissà se Freud avrebbe qualcosa da dire in proposito, è A-a (che poi sarebbe Flavia, ribatezzata da te nel modo in cui gli hawaiani chiamavano la lava che brucia forte sotto i piedi), nelle sue infinte varianti (naso A-a, A-a è caduta!, A-a tutto in bocca, A-a dormendo, A-a, èmmmio!!!).
La parola che non mi hai detto praticamente mai è sì, sostituita al massimo da un cenno appena abbozzato del capo. Qui vanno forte i no, anche in questo ti scopro decisamente mio figlio, e tant’è.
Le parole che hai detto presto, guarda un po’, sono mamma, biscotto, frutta e pizza (pizzapizzapizzapizzapizza). Poi hai imparato a dire pane, ciuccio e papà (che però è stato papa per molto tempo, deve piacerti Francesco e in fondo ne hai molte ragioni), esaurendo il quadro delle tue necessità primarie.
Quella che non capisco mai è bere, quella evocata a lungo, intesa e fraintesa in ogni tua precoce lallazione, ovviamente è nonna, insieme a tutte le sue varianti.
La parola che più ti fa uomo è aiuta, che borbotti quando, nonostante la tua ostinazione, non sei in grado di cavartela da solo. Quella che mi strappa sempre un sorriso è aereo, sei uno zingaro figlio di zingari e non potrei davvero desiderare di meglio. La parola che hai riservato a lungo a tuo padre, in-braccio. A lui che ti tiene e ti sostiene, che ha spostato il suo baricentro per sorreggerti e trasportarti nel mondo, come ho fatto io da quando ti avevo nel ventre.
La parola che più mi commuove, e sono certa che mi capirai, è mammatua, mutuata identica da certe formule che uso quando mi scappa di parlarti di me in terza persona. Tu, incapace ancora di declinare un possessivo, la invochi come un mantra, specie quando sei stanco o triste, o quando l’ora è tarda e hai voglia di dormire. Mammatua, mammatua.
Mamma tua è qui, figlio mio. Ora e sempre, nei secoli dei secoli. Finché tu la chiamerai, a gran voce o nel silenzio più muto, mamma tua è qui.