Qualche anno fa, girellando nei dintorni di Granada, udii cantare una popolana che addormentava il suo bambino. Avevo sempre notato la tristezza delle nostre canzoni di culla; mai come allora, però, avevo colto questa verità in tutta la sua concretezza.
Così racconta Federico García Lorca all’inizio di un, almeno per me, interessantissimo libretto che si intitola Sulle ninne nanne (Salani Editore, 2005). La pubblicazione, che ho scoperto grazie alla segnalazione di Concita De Gregorio nel suo struggente Una madre lo sa è in realtà la trascrizione di una conferenza tenuta dal grande poeta andaluso alla fine degli anni Venti del secolo scorso (o all’inizio dei ’30, non ne sono sicura) sul tema delle ninne nanne nella tradizione popolare spagnola. Peregrinando per la Spagna con un orecchio teso verso i canti delle mamme e delle balie, García Lorca scopre una verità che mi pare applicabile alla lettera anche alle nenie per bambini che si cantano in Italia, e che ho sempre trovato un po’ angosciante e in qualche modo incomprensibile: le canzoni e le filastrocche che dovrebbero accompagnare i bimbi tra le braccia di Morfeo sono piene di immagini inquietanti, oscure e spaventose. E pure, in qualche caso, diseducative e vagamente razziste.
Se in Spagna pretendono di rilassare i bambini con le storie di gitane malvagie, tori furiosi e mostri dalle sembianze indefinite, le mamme italiane cercano da decenni di far scivolare nel sonno i propri figli minacciandoli di abbandonarli tra le grinfie di orride befane, lupi cattivissimi e uomini neri (perché poi non sono mai bianchi, questi crudeli spaventa-bambini?). Oppure cercano di conciliare il sonno raccontando di ciotole vuote e di mense reali dove scarseggia perfino l’insalata. E non finisce mica qui. Basta una ricerca sommaria per scoprire, nell’ordine, cagne che rubano la pappa per portarla ai propri cuccioli (l’ossessione italica per il cibo, evidentemente, viene fuori anche qui), bambini costretti ad assopirsi perché passi loro “la bua”, piccoli mutanti con stelle al posto degli occhi e strane vecchie che si stagliano tremolanti sulle culle mentre i piccoli fanno la nanna. Tanto vale, a questo punto, piazzarli davanti a una maratona di Marzullo e sperare che crollino per sfinimento.
La tradizione napoletana, che pure conosco appena, invoca addirittura la Vergine Maria perché prenda con sé il bambino (se per poi restituirlo alla legittima madre, questo non è chiaro) e, soprattutto, ci regala l’intramontabile classico del lupo che mangia la povera pecorella – quanto la cultura popolare del lupocattivo avrà influito sul destino, quello sì crudele, che sta piombando addosso a questi splendidi predatori? -, mentre il compianto Bruno Lauzi, in un brano che peraltro adoro, minacciava un bambino reticente di torture indicibili se non si fosse rassegnato a dormire.
Il top, per me, resta comunque la commovente Ninna nanna di Angelo Branduardi, mutuata da una ballata scozzese del Sedicesimo secolo (Mary Hamilton, celebre nella delicatissima versione di Joan Baez) che racconta di una serva costretta ad abbandonare il suo bambino nato da una relazione illecita con il re di Scozia. Nel brano, la culla con il piccolo addormentato viene affidata al mare, e sua madre piange fino all’alba per il dolore della perdita (nella versione originale, perché nel testo di Braduardi il rimpianto materno non è così esplicito). Roba da far impallidire Mosè. Io stessa, lo confesso, ho canticchiato la versione italiana a mio figlio più di una volta, chiedendomi poi perché mai avrebbe dovuto abbandonarsi al sonno se questo avesse potuto significare essere abbandonato per davvero.
Ora, sarà anche vero che, come mi ha fatto notare mio nipote Daniele, i bimbi piccoli non possono comprendere il significato letterale di quello che cantiamo loro, però trovo quanto meno singolare che si cerchi di far dormire i bambini spaventandoli con immagini cupe e storie tristi, spaventose e pure anti ecologiche. Federico García Lorca trova una serie di spiegazioni che forse possono valere anche per la tradizione italiana (ma non so se qualcuno abbia fatto studi in proposito): molte ninne nanne sono state inventate da popolane disgraziate per le quali i figli erano sempre troppi, o troppo precoci, oppure da mogli infelici che cantavano i loro amori fedifraghi ai piccoli avuti dai mariti che detestavano. Quel che è certo, come scrive la De Gregorio nel suo libro, è che addormentare un bambino è talvolta un compito estenuante. Può essere un’esperienza tanto frustrante quanto catartica, aggiungo io. E, tutto sommato, cantare ai figli la propria fatica è molto umano, confessare loro il lato oscuro dell’amore sconfinato che ogni madre conosce è, in fondo, un coraggioso atto di onestà.
Ma in ogni caso io torno a chiedermi: cosa c’entrano in tutto questo i poveri lupi?
Riferimenti discografici:
Ninna nanna del chicco di caffè
Eugenio Bennato, Ninna nanna di Carpino
Bruno Lauzi, Ninna nanna meridionale