Questa mattina, per la prima volta da quando è cominciata l’emergenza Coronavirus, sono stata con Flavia e Davide in uno dei parchi pubblici della nostra città. È il “nostro” parco, quello più vicino a casa, dove nei pomeriggi di primavera (le primavere normali, s’intende) ci diamo appuntamento con gli amici dopo la scuola. Dove, proprio accanto a una delle entrate, c’è la nostra libreria preferita e dove, quando era più piccola, ho spinto Flavia sull’altalena per ore e ore.
Ero consapevole che oggi avrei trovato i prati incolti, il laghetto asfittico e l’area giochi interdetta, transennata con dei nastri di plastica in stile scena del crimine. Ma è stato comunque un po’ triste ritrovarmi a girovagare in quella che, inaspettatamente, mi è parsa una landa squallida e grigia (complice forse una cappa d’afa inattesa e un cielo ingrigito dalla sabbia e dalla polvere arrivate con lo scirocco).
Mi è sempre piaciuto, tutto sommato, il nostro parco cittadino. È stato una valvola di sfogo importante nei primi anni della mia vita da madre, quando l’unico modo per tenere tranquillo Davide era passeggiare per ore tenendolo nel marsupio o quando, trovatami improvvisamente senza lavoro e con pochi amici dopo la seconda maternità, affogavo l’ansia e la solitudine camminando con Flavia in fascia per intere mattinate.
Sono intimamente grata a quel parco. E ho sempre pensato che, rispetto a tanti comuni del circondario, noi fossimo davvero dei privilegiati a poter godere di un’area verde così estesa.
Non a caso, l’ultima uscita prima del lockdown l’avevo fatta assieme ai miei figli proprio nel “nostro” parco pubblico.
Ma questa mattina, per la prima volta da che ne ho memoria, quello spazio urbano ampio e un po’ trascurato mi è apparso per quello che realmente è: un pallido surrogato della “natura” di cui avremmo tutti bisogno per stare bene, per stare bene davvero. Una soluzione di ripiego che può bastare quando, appena se ne trova il tempo e la possibilità, si è avvezzi a partire alla scoperta della natura “vera”, che sia per un viaggio dall’altra parte del mondo o per una gita fuori porta.
Adesso che, però, l’emergenza sanitaria ha limitato drasticamente la nostra libertà, adesso che ci è preclusa la possibilità di fuggire dalla città in cerca di spazi naturali, il compromesso si fa davvero duro da accettare. E quella che mi è sempre parsa una bella opportunità, e che ora, dopo mesi di reclusione, dovrebbe forse apparirmi come una realtà idilliaca, mi sembra tutto a un tratto un palliativo inaccettabile. Un surrogato squallido, appunto.
Forse è perché sono stata aggredita da due enormi oche incattivite, che ho scacciato usando un libro di Rodari come scudo e difendendo i miei figli col mio stesso corpo. Forse è perché da giorni, legittimamente e comprensibilmente, amici che vivono in luoghi più ameni di me non fanno che condividere le testimonianze colorate e gioiose della loro recuperata libertà: campagne invase da fiori selvatici, spiagge deserte, boschi nel pieno del rigoglio primaverile, prati arrossati dai papaveri e mossi dal vento. Fatto sta che questa “fase 2” mi ha rivelato con una chiarezza inedita che le nostre città sono posti tecnicamente inabitabili. Lontani dalla natura e complessivamente insostenibili. E lo dice una che è sempre stata, e probabilmente resterà, un animale convintamente urbano, intimamente incapace di fare a meno del fermento cittadino, delle opportunità (fosse anche solo teoriche), dei servizi e delle occasioni di incontro della città. Ma che oggi, privata della possibilità di evadere temporaneamente dall’asfalto e dall’aridità metropolitana, si sente all’improvviso in prigione assieme ai suoi figli. Non so se avremo occasione di ripensarle, queste nostre isole di asfalto ingrigite e aride. E non so se, personalmente, troverò finalmente il coraggio per mettere in discussione le mie scelte di vita e inseguire una dimensione esistenziale più naturale e più appagante.
Ma so che non esiste libertà, nemmeno se autorizzata per decreto, per chi vive lontano dalla natura.
La nostra “fase 2” è solo una proroga dell’esilio. Del nostro esilio da Madre Natura.