Quando hai più di un figlio, tutti ti raccomandano, com’è giusto che sia, di evitare ogni confronto tra di loro. Più in generale, l’invito è quello di non paragonare mai i propri figli a quelli altrui, di non ridurre la loro crescita a una “gara” a chi per primo brucia le varie tappe del percorso. Tutto bello, tutto importante, tutto sacrosanto.
Ma non è un po’ ipocrita, o perlomeno contraddittorio, ammonire i genitori sui rischi del confronto, se poi la competizione, la performance, il risultato sembrano essere i criteri su cui si regge la società intera? Se poi tutto o quasi viene ormai ridotto a cifre, primati, prestazioni? Se sono i like sui profili social, a quanto pare, a decretare il successo sociale – e spesso professionale – della gente?
Il valore di un lavoro, e la realizzazione che ne dovrebbe derivare, sembra misurabile solo in soldi guadagnati o in risultati raggiunti. Il valore stesso di una persona, sempre più spesso e drammaticamente, viene stimato sulla base del al reddito che produce, dei soldi che percepisce e di quelli che, di conseguenze, può spendere. Dei risultati che garantisce in termini di produttività. Tutto è gara, tutto è competizione, tutto, appunto, è confronto. Dall’ostentazione sul web di una felicità che a volte è solo di plastica, alle vacanze – che sembrano essere più belle tanto più siano “invidiabili”, ovvero esotiche, lussuose, esclusive –, dall’aspetto fisico alle proprie capacità genitoriali. Ogni cosa viene soppesata e sottoposta di continuo a valutazione e a confronto. Ci si vanta un po’ di tutto, anche di quello che in realtà dipende solo dal caso, o dalla fortuna, se preferite.
L’autostima viene confusa con la spocchia. L’ambizione con il carrierismo. La meritocrazia con la popolarità. Se sei consapevole dei tuoi limiti, sei una persona “insicura”. Se ti accontenti di quello che hai, sei in un certo senso un perdente. Il pungolo costante non è a fare quello che ti rende felice, e neanche a fare il meglio che puoi, ma a fare meglio in senso assoluto. Possibilmente meglio degli altri, magari meglio di tutti. E il meglio, questo è il problema, viene stabilito sulla base di numeri. Che siano voti scolastici, palloni mandati in porta, follower di Facebook o incassi al botteghino. Se non sei “all’altezza degli altri”, se non rendi quanto gli altri, se non piaci quanto gli altri, sei peggiore di loro. È questo, spesso, il messaggio che passa. Che può causare – a me succede spesso – frustrazione e sofferenza. Vergogna, se va peggio. Invidia e rabbia, nei casi peggiori.
Invece dovremmo crescere i nostri figli convincendoli che una squadra di calcio ha bisogno di un mediano tanto quanto di un bomber, e che l’uno non è peggiore dell’altro. Spiegando loro che il talento di un musicista, o di uno scrittore, non si misura sempre dal numero di biglietti o di libri che vendono. E che il valore di un uomo o di una donna non si misura dal suo talento. Che un essere umano è molto di più del lavoro che fa, e che la realizzazione non passa solo, o non passa affatto, dal consenso e dal cosiddetto successo.
Forse, se lo spiegassimo a loro, finiremmo col crederci noi per primi. E smetteremmo di sentirci in gara su qualsiasi cosa, o di consentire che il mondo pretenda da noi di fare a gara con gli altri, di competere, di confrontarci. Smetteremmo di pretendere da noi stessi di piacere a tutti, sempre e comunque.
Ma forse sto attribuendo agli altri quello che in fondo è solo un mio problema. L’obbligo di garantire delle “prestazioni” sempre eccellenti e misurabili – sul lavoro come nella vita privata – per sentire riconosciuto da me stessa il mio valore.