Noi donne parliamo e parliamo, si sa. Anche e soprattutto sul web, negli ultimi anni. Ma ci sono cose che ancora facciamo fatica a dire. Parole che ci sembrano impronunciabili, perché si riferiscono a cose che non conosciamo bene, che sottovalutiamo o delle quali, peggio ancora, ci hanno convinto che sia il caso di vergognarci. Parole che, invece, le donne dovrebbero usare di più.
Mestruazioni
Forse è perché il gruppo di consonanti al centro risulta un po’ ostico da pronunciare, ma la mia sensazione è che a rendere così sottosfruttata questa parola sia un certo tabù che ancora le aleggia intorno. Come se le mestruazioni fossero qualcosa che ci rende sudicie, sgradevoli. Come se ci fosse qualcosa di cui vergognarsi per un endometrio che si sfalda e sanguina ogni quattro settimane. Da un quarto di secolo mi fanno compagnia ogni mese, e da allora le ho sentite chiamare nei modi più disparati: il ciclo, le mie cose, le regole, i problemi (!) femminili, le rosse, le malefiche e via dicendo. Ma si chiamano mestruazioni (il ciclo, per chiarire, è invece il processo complessivo che coinvolge l’apparato riproduttivo femminile tra una mestruazione e l’altra).
Contraccezione
Mi sconvolge sempre scoprire quante persone – donne e uomini – siano in grado di fare sistematicamente a meno dei contraccettivi, non solo nell’ambito di una relazione monogama e stabile, ma anche in condizioni di maggiore promiscuità. E quante (soprattutto donne) si vergognino ancora di entrare in farmacia e comprare dei profilattici, o di farsi vedere in spiaggia con un cerotto contraccettivo sul braccio. E invece la contraccezione dovrebbe diventare il tema tra i temi. In famiglia, a scuola, online. Perché è cruciale – e mi sento un po’ idiota anche solo a sottolinearlo – in termini di profilassi, di controllo delle nascite e anche di prevenzione dell’aborto.
Orgasmo
Chiamiamolo col suo nome, che non è una parolaccia. Chiamiamolo col suo nome, anche quando ne parliamo con le nostre figlie. Perché non pensino che sia qualcosa da nascondere, o per il quale vergognarsi. Ma neanche una specie di leggenda metropolitana, qualcosa che “se non capita, è normale”. Chiamiamolo senza imbarazzo, come non ci verrebbe mai in mente di vergognarci dicendo “digestione” o “starnuto”. Facciamo in modo che le nostre figlie e i nostri figli sappiano cos’è, come funziona, cosa si può fare e a chi ci si può rivolgere se ci sono difficoltà. Perché le nostre figlie possano esigerlo, e i nostri figli dare per scontato che le loro compagne ne abbiano diritto.
Sterilità
Su questa parola incombe purtroppo uno stigma fortissimo, per le donne e per gli uomini. Perché l’infertilità è ancora una specie di lettera scarlatta. Un difetto di fabbrica, un marchio di sventura. Qualcosa che suscita negli altri commiserazione e pietismo, oppure una totale e feroce assenza di empatia. Perché non essere fisicamente in grado di riprodursi viene sentito, da troppi dei “fertili”, come qualcosa di inammissibile, per il quale sentirsi “inferiori”, irrisolti, incompleti se non addirittura inutili. E al dolore di non riuscire a diventare madre, o padre, si aggiunge così l’imbarazzo, la paura del commento caustico, lo stillicidio senza fine delle domande, quelle sì, inutili. La sterilità è un problema che per molte donne (e uomini) può assumere proporzioni tragiche. Ed è un fatto privato. Ma non dovrebbe mai essere qualcosa che si ha il terrore di condividere per non rischiare di trovare, invece che supporto e conforto, un atroce dito nella piaga.
Vulva (e co.)
Non sono una fan dei tecnicismi. Chiedo normalmente ai miei figli se devono “fare la cacca”, e non certo se hanno bisogno di defecare. E se uno di loro cade, non mi verrebbe mai in mente di domandare se gli fa male l’omero, una natica, o il cranio. Dico “braccio” e dico “testa”, dico “sedere” e dico “pisello”. Però penso che i bambini debbano conoscere anche i termini corretti con cui definire il proprio corpo, in ogni sua parte. E allora forse è il caso di usarli noi per prime, questi termini. Di spiegare che il pisello si chiama pene e che la cacca, più correttamente, si chiama feci. Non è solo una questione di cultura o di lessico. Ma di consapevolezza di sé. Non possiamo conoscere una cosa, averne rispetto e prendercene cura se non sappiamo come si chiama. E questo vale anche per i bambini.