Quando aspettavo il mio primo figlio, non sapevo neanche che esistessero dei genitori che si definivano ad alto contatto. E se lo avessi saputo, probabilmente li avrei compatiti o biasimati, giudicandoli deboli, esagerati, forse morbosi. Avevo preparato una culla piccolissima in camera da letto, ma avevo già pronto un lettino in cameretta, che contavo di utilizzare di lì a pochi mesi. Avevo chiesto in regalo un marsupio ergonomico, ma soltanto come strumento per affrontare più comodamente i viaggi che ci attendevano: per il resto, carrozzina e passeggino aspettavano mio figlio a braccia aperte. Avevo fermamente intenzione di allattare, questo sì, ma per ragioni che prescindevano dal discorso del legame madre/figlio e dei benefici del contatto. Volevo allattare per motivazioni di carattere ambientale, economico e di salute, tutto qui. Davo per scontato che avrei smesso al massimo entro un anno, avevo dei ciucci nella valigia per l’ospedale e un biberon già pronto nella dispensa.
Poi è nato Davide, e per un po’ ho continuato ad andare avanti nella certezza che fosse giusto e necessario abituare lui e noi a determinate regole. Evitavo che fosse preso in braccio se non era indispensabile (per igiene e per educazione, mi dicevo), quando si addormentava lo lasciavo nella sua culla e accendevo le trasmittenti per controllarlo a debita distanza, cercavo di convincerlo a usare un ciuccio che inizialmente detestava, così da offrirgli il seno solo quando mi sembrava che avesse davvero fame. Di notte mi congelavo per allattarlo seduta e poi rimetterlo ogni volta a dormire nella sua culla. Praticamente non dormivo.
Dopo appena poche settimane, mio figlio ha iniziato a piangere di continuo e disperatamente. Se non fosse stato scandalosamente grasso, avrei finito col dubitare della “bontà del mio latte”, probabilmente. Invece la diagnosi unanime fu: ha le coliche. La cura consisteva in massaggi, stimolazioni per aiutarlo a liberarsi dell’aria, camomilla senza zucchero, fermenti lattici, farmaci antispastici. E naturalmente nel cercare di non alimentarlo eccessivamente, cercando di distanziare il più possibile le poppate. Non funzionava nulla. O meglio, a volte Davide si calmava, ma era assolutamente impossibile attribuire con certezza il “miglioramento” a qualcuno dei rimedi adottati. Quello che un giorno sembrava dargli sollievo si rivelava del tutto inefficace il giorno successivo. Lui continuava a piangere come un disperato, e io a sentirmi progressivamente peggio. Cercavo informazioni, spiegazioni, diagnosi. Mi convinsi che aveva il reflusso, poi che la colpa fosse del mio riflesso di emissione troppo forte, ma nulla di quello che tentavo sembrava risolvere davvero il problema. Lo portai da un osteopata, ma fu l’ennesimo buco nell’acqua. Leggevo libri che suggerivano indicazioni, metodi, strategie, ma lui non faceva che piangere. E io mi angosciavo sempre di più.
Ripenso a quei mesi come a un inferno, ne conservo finanche poche fotografie. Era impossibile uscire a cena fuori, era imbarazzante andare a casa di qualcuno. Per strada la gente mi fermava per chiedermi cosa avesse mio figlio, o per farmi notare che quel neonato in carrozzina strillava a pieni polmoni. Come se i miei timpani potessero essere impermeabili a quell’ululato disperato e continuo. Mi convinsi che il malessere di Davide dipendeva dalla gravidanza non esattamente serena che avevo vissuto, oppure dal cesareo con cui era nato. Le occhiate di commiserazione di sprecavano, così come i suggerimenti – in buona fede, per carità – da parte di chiunque. Per qualcuno il mio latte non era nutriente, nonostante il 97imo percentile di Davide, per altri era indigesto o troppo grasso. Per altri ancora lui era troppo vorace, e si “riempiva d’aria” mentre poppava. Per qualcuno piangeva per allargarsi i polmoni, e andava bene così. Per qualcun altro lui era semplicemente furbo, e dall’alto dei suoi pochi mesi di vita aveva capito che piangere era l’espediente perfetto per ottenere il seno (ci fu chi mi disse che mi aveva “scambiata per un ciuccio”). Eliminai dalla mia dieta un sacco di cose, cominciai a prendere tisane che avrebbero dovuto magicamente aiutare mio figlio a digerire, lo mettevo giù tra le urla e andavo a piangere in un’altra stanza. Mi rassegnai ad aspettare, come dicevano in tanti, che il tempo passasse e lui smettesse di piangere.
Nel frattempo, però, avevo cominciato a notare che questo famigerato mal di pancia si calmava quasi sempre se attaccavo mio figlio al seno. Anche se non erano passate le fatidiche tre ore. Anche se lui era grasso e di certo non gli mancava il cibo. Anche se in teoria dovevano essere proprio dei problemi digestivi a farlo urlare di dolore. Tirai fuori il marsupio, e cominciai a usarlo per disperazione (troppo presto, col riduttore per neonati, ma allora non avevo idea che fosse meglio aspettare): anche lì dentro, appiccicato a sua madre o a suo padre, Davide si placava quasi subito, e si addormentava beato. Di notte provai a tenerlo vicino a me, e anche se continuava a svegliarsi spesso per il latte, per lo meno non piangeva.
Ricordo come fosse ieri il senso di lacerazione e vergogna che ho provato in quei mesi. Mio figlio sembrava stare meglio, io sentivo finalmente di amarlo, dopo una gravidanza tormentata e un puerperio da incubo. Ma lo stavo viziando. Stavo cedendo alle sue pretese da piccolo tiranno, gli stavo concedendo abitudini malsane, lo stavo rendendo dipendente e debole. Ricordo le discussioni in famiglia, le battutine degli amici (che di certo, per carità, non potevano avere idea del male che facevano), il confronto quotidiano che facevo con le altre neomamme di mia conoscenza. Così brave, loro. Così autorevoli, integre, così forti. Scrivevo post su quanto fossero perfetti e bene educati i figli (neonati) degli altri.
Poi un giorno ho scoperto finalmente di non essere sola. O meglio, che mio figlio non era il solo bambino a richiedere tanto “contatto”, e che tanti genitori avevano deciso di assecondare questa richiesta. Convinti che non fosse poi così deleterio. Ho scoperto, addirittura, che secondo molti neurologi, psichiatri e pediatri, rispondere affermativamente alle esigenze dei bambini poteva essere un bene per il loro sviluppo. Ho iniziato a leggere articoli e libri che sdoganavano, e anzi legittimavano, certi comportamenti che avevo ormai acquisito. Che mi autorizzavano, in un certo senso, ad essere quella che stavo diventando per assecondare mio figlio. Che mi aiutavano ad assolvermi. Ho finito col fare scelte assolutamente impopolari, tra le persone che conoscevo, e questo mi è costato tantissimo.
Sono diventata una madre ad alto contatto. Ma lo sono diventata per necessità, e non per una presa di posizione ideologica e aprioristica. Lo sono diventata “di rimbalzo”, perché stavo impazzendo insieme a mio figlio, perché evitare di assecondarlo si stava rivelando una strada suicida, perché ero profondamente infelice della sua evidente infelicità. Lo sono diventata contro tutto e tutti, perché nel posto in cui vivo io questo “stile” di genitorialità (che espressione infelice!) è ancora malvisto, avversato, giudicato negativamente. O per lo meno ritenuto molto insolito e naif.
Quando è nata la mia seconda figlia, che ha mostrato, da questo punto di vista, un temperamento identico a quello del fratello, è stato automatico assecondarla dal primo giorno. Non è stata una scelta “di comodo”: mi è costata il sonno, tante amicizie, la solitudine della mia camera da letto e una fetta di quella che ritenevo essere la mia libertà. Allatto ininterrottamente da oltre tre anni, e questo certe volte è semplicemente estenuante. Ho portato Flavia in fascia per ore, tutti i giorni, per quasi un anno (perché piangeva appena la mettevo giù). Io e suo padre abbiamo dormito, per oltre 4 mesi, tenendola a turno su di noi, perché altrimenti si disperava. Lei non ha mai voluto prendere il ciuccio, né il biberon. Io e i miei figli ci separiamo ancora poco, nonostante siano nati rispettivamente da oltre tre anni e da un anno e mezzo.
Non è stata, e non è, una scelta facile. Ma per noi quattro è stata l’unica possibile. Non credo assolutamente che i miei figli cresceranno “più indipendenti”, più sicuri o più felici solo perché hanno una madre ad alto contatto (e un padre con le stesse caratteristiche, ça va sans dire). Ma so per certo che questi primi anni sarebbero stati profondamente infelici per tutti noi, se non avessi assecondato le loro richieste. Rimpiango di non esserci arrivata subito, e spero che alla fine non avrò troppe cose di cui rammaricarmi.
Sono una madre ad alto contatto perché ho due figli ad alto, altissimo contatto. E non vedo, quindi, che tipo di madre potrei mai essere altrimenti.