Che espressione orribile, poi. Come se un genitore potesse essere tale “a tempo parziale”. Come se una madre non fosse comunque una madre mentre si trova sul posto di lavoro. Tant’è. Sono una “mamma a tempo pieno”, anche se ho una professione (misconosciuta e sottovalutata), un reddito (magro e discontinuo), degli impegni professionali (cui, nella maggioranza dei casi, attendo dal computer di casa mia). Sono una mamma a tempo pieno, e ne sono grata. Sono felice di non dover dipendere, materialmente e moralmente, da qualcuno che si occupi dei miei figli al posto mio. Sono felice di poter gestire le chiusure scolastiche, i malanni e gli imprevisti senza andare in crisi, e senza gravare sul bilancio familiare. Sono felice di poter dedicare a Davide e Flavia una grande quantità di tempo, cercando ogni giorno di fare in modo che sia anche tempo di qualità.
Eppure, ogni tanto, mi chiedo un sacco di cose.
Mi chiedo come sarebbe uscire ogni giorno al mattino e rientrare a sera. Per sgobbare dietro una scrivania, certo. Ma anche per intrattenermi con dei colleghi, per fare quattro chiacchiere in pausa caffè, per ordinare una pizza in ufficio, ogni tanto, invece che mangiare a mensa. Mi chiedo come sarebbe la mia vita se mi trovassi a delegare necessariamente molte delle incombenze quotidiane, pagando qualcuno o facendo affidamento alla disponibilità e all’affetto di qualche familiare. Il pranzo, la logopedia, il parco giochi, le attività pomeridiane. Se non toccasse a me, per una questione banale di presenza, lo sforzo maggiore in termini educativi. Mi chiedo se mi sentirei, lavorando a tempo pieno in un’azienda, meno in dovere di sobbarcarmi la maggior parte dei compiti casalinghi e di accudimento: il pediatra, le vaccinazioni, i controlli medici, gli acquisti per la scuola e via dicendo. Mi chiedo se mi sentirei più autorizzata, avendo uno stipendio più congruo, a pagare regolarmente qualcuno perché pulisca la mia casa al posto mio.
Mi chiedo, soprattutto, come mi guarderebbero i miei figli se mi vedessero poco o niente. Se dovessero ogni giorno sentire la mia mancanza, desiderare il mio ritorno, sopportare la mia assenza. Mi amerebbero di più? Mi stimerebbero maggiormente? Perdonerebbero più facilmente i miei sbagli? Non adesso, certo. Ora che sono ancora piccoli, e non si fanno domande, io resto la presenza più amata, sempre gradita, sempre desiderata. Rimpianta e invocata quando manca. Ma quanto durerà? Cosa accadrà fra qualche anno? Diventerò ai loro occhi il genitore onnipresente e maltollerato? Quello invadente, quello petulante, quello che costituisce una presenza scontata e in qualche modo “poco emozionante”, se non addirittura fastidiosa? Quello al cui indirizzo sbuffare e sbattere porte dinanzi ai divieti, alle raccomandazioni, ai rimproveri? Lo sforzo educativo quotidiano – che è estenuante, almeno per me, molto più delle notti insonni, dei pannolini immondi e dei pianti inconsolabili – sarebbe meno logorante, se di fatto mi fosse richiesto per non più di un paio di ore al giorno? E soprattutto, sarebbe più efficace?
Tante domande, nessuna risposta. Conoscendomi, e questo mi consola, avrei probabilmente altrettanti dubbi se la mia vita fosse radicalmente diversa da quella attuale. Perché sarei in ogni caso una “mamma a tempo pieno”. E sarei comunque insicura come lo sono adesso. Perché fare il genitore è difficile comunque, specie al giorno d’oggi, e l’amore dei figli non è mai scontato. Posso solo sperare di ritrovarmi sempre con la coscienza a posto, certa di aver fatto del mio meglio. E questo sia sufficiente, se non a garantirmi la stima dei miei figli, a salvarmi dai rimpianti per tutta la vita.