Non è che io non ti voglia ascoltare. Che io non sia interessata a quello che mi stai raccontando, che non mi importi di te, di quello che ti è accaduto e di quello che la tua immaginazione partorisce nella tua testolina adorabile. Non è che io ritenga più importante altro rispetto a te, ai tuoi sentimenti, alle tue idee, ai tuoi ricordi. È che sono adulta. E come tutti gli adulti non sono mai del tutto libera. È che se non provvedo a consegnare quel certo lavoro entro stasera, poi mi troverò nei guai, in primis con la mia coscienza e la mia autostima (due tipe incazzose che temo tu abbia ereditato da me). È che se non tolgo la cena dal forno proprio adesso, finirà bruciata e immangiabile. È che se non ritiro il bucato dal balcone, l’umidità della notte lo inzupperà, e mi toccherà rifare tutto da capo. È che mentre tu mi chiedi di ascoltarti con quei tuoi occhi enormi luccicanti di curiosità, saltellando perché sei incapace di stare fermo, nel mio cervello strepita a tutto volume un allarme orrendo e insopportabile che non so disattivare. L’allarme che mi ricorda quanto io sia in ritardo su tutto, quanti doveri ancora mi chiamano, quante scadenze si avvicinano pericolosamente, quanti problemi richiederebbero con urgenza la mia attenzione.
Non è che io non abbia voglia di giocare con te. Non è che mi dispiacerebbe restare con te sul tappeto a lanciare dadi, a costruire castelli, a ninnare bambole. Non è che io mi ritenga troppo cresciuta, o troppo saggia, o troppo matura per intrattenermi con te nel tuo mondo sognato. Non sono cresciuta. Non sono saggia, non sono matura. Sono soltanto adulta. E la mia vita semplice e regolare di adulta sana e benestante del terzo millennio pretende da me un sacco di tempo e di energie. Un sacco di risorse nervose e muscolari ogni santo giorno, per guadagnare soldi e spenderli, per soddisfare bisogni indotti (miei o di altre persone), per intrattenere conversazioni inutili e mantenere in vita relazioni che non portano alla felicità. È che mentre tu mi supplichi di giocare con te, con indosso il tuo vestito luccicante da maga, o le tue ali rosa da unicorno, lacci invisibili mi inchiodano alle mie responsabilità, reali o presunte che siano. Voci silenziose mi richiamano all’ordine, esigono il mio tempo e le mie residue energie.
Non è che non mi vada di guardare un film assieme a voi, o di leggere un libro facendo le voci. Di sprofondare nel divano con il gatto sulle cosce e di sgranocchiare bruscolini dallo stesso sacchetto, mentre ridiamo o cantiamo a voce alta. Mentre ci stringiamo sotto una coperta, consapevoli e grati perché ci siamo, perché stiamo insieme e stiamo bene. Perché siamo felici. È solo che se non faccio adesso le cose che devo fare, domani saranno raddoppiate, e diventeranno talmente pesanti da schiacciarmi il petto e annebbiarmi i pensieri. È solo che se mi concedo questo tempo con voi, dovrò inventarne altro per tutto il resto, e davvero non sarei capace. Non ne avrei la forza.
Non siamo genitori di figli piccoli che per una manciata di anni. Una piccola pila di lune che ogni mese si assottiglia sotto i nostri occhi, affaticati dal sonno mancante, dalle preoccupazioni, dalle responsabilità che si accumulano e ci sopraffanno. In queste poche decine di lune dovremmo poter vivere nella costante consapevolezza, nella certezza inaffondabile che i nostri bambini sono la nostra priorità assoluta. Che stare insieme a loro – starci davvero – dovrebbe essere l’obiettivo temporaneo delle nostre vite, non solo perché i nostri figli ne hanno bisogno e ce lo chiedono a gran voce, ma perché fa bene a noi, anche se non sempre ce ne rendiamo conto. E invece siamo oberati e schiacciati. Distratti, contesi. Distrutti da ritmi quotidiani innaturali e insostenibili, dalla dipendenza dai social, da uno stile di vita insensato e deprimente, da tutto quello che ci hanno convinto significhi essere adulti e genitori “responsabili”: guadagnare bene, avere una bella casa in ordine, aderire a certi canoni sociali, vivere con certi standard. E l’unica soluzione possibile, laddove ci sia una qualche soluzione, sembra essere quella di rinunciare a starci, insieme ai bambini. Di delegare la nostra presenza ad altri, così che noi possiamo “serenamente” occuparci del resto. Peccato che presto questi figli smetteranno di chiederci ascolto e presenza, smetteranno di avere cose da dirci, giochi da condividere, libri da farsi leggere. Speriamo che a noi e alle nostre responsabili vite da adulti, alla fine della giostra, non resti solo un gigantesco rimpianto.