Una delle cose che non ci stanno dicendo, o che forse non ci stanno dicendo abbastanza, a giudicare dal sentimento popolare, è per esempio che non è tanto lo stare chiusi in casa, o in un giardino privato, a salvarci. Quanto lo stare lontani l’uno dall’altro (perlomeno da tutti quelli che non sono i nostri conviventi, visto che non si può fare diversamente). E che, di conseguenza, il pericolo vero sta nel continuare a frequentare i nonni che vivono nello stesso condominio, i cugini dirimpettai o i vicini di casa, pure se si continua a restare, tecnicamente, “dentro una casa”. Questo e non tanto – dico per dire – la frequentazione solitaria di un bosco, di un parco, di una spiaggia.
Quello che non ci stanno ancora dicendo – e francamente, dopo il montare della polemica negli ultimi giorni non ne capisco la ragione – è che il nostro sistema scolastico, perlomeno in ampie parti del paese, non è compatibile con una coesistenza sufficientemente serena col virus, e non si vuole forse provare a rivoluzionarlo, a cambiare una volta per tutte lo status quo. Perché le aule sono troppo piccole, le strutture inadeguate e fatiscenti (senza laboratori, aule da disegno o altri spazi da destinare a una eventuale turnazione), le classi troppo affollate e perché mancano il personale e le risorse per garantire, non dico una sanificazione efficace, ma un livello vagamente accettabile di pulizia. Non ci dicono che il calendario scolastico e l’orario, contrariamente a quello che accade nei paesi più evoluti, è assolutamente incompatibile con la vita delle famiglie e con gli impegni di lavoro dei genitori.
Quello che non ci stanno dicendo è che, a quanto pare, non esiste la volontà politica di approfittare della tragica crisi che ci è piovuta addosso per rivoluzionare una buona volta il nostro sistema scolastico. Per rivedere finalmente il calendario, per ripensare gli orari, per estendere quelli che dovrebbero essere diritti inalienabili di tutti i bambini e di tutte le famiglie, come la mensa e un tempo pieno di qualità. Per mettere al centro le famiglie, per incentivare l’occupazione femminile, per liberare i nonni dalla responsabilità enorme di fare da ammortizzatori sociali e da paracadute per i loro figli e nipoti. Una responsabilità che le loro spalle non possono continuare a sostenere, soprattutto adesso.
Quello che non ci stanno dicendo è che non è vero che siamo “indisciplinati e privi di senso civico”. I dati, anzi, dicono proprio il contrario: che “siamo il paese europeo ad aver deciso le massime restrizioni (solo da noi, per dire, è vietato andare a correre) e siamo anche quello più disciplinato”.
Quello che non ci stanno dicendo, ma forse non c’è neanche bisogno che lo facciano, è che, anche se le donne sono colpite in modo meno feroce dalla malattia, è su di loro che finirà col ricadere, come sempre, il peso maggiore delle conseguenze sociali ed economiche che tutti dovremo sostenere. Che saranno state soprattutto le donne, in questi lunghi mesi di smart working e didattica a distanza, a sobbarcarsi l’onere aggiuntivo di seguire i bambini nei compiti e nelle lezioni online. Che saranno soprattutto loro, come succede sempre, a finire col fare un passo indietro, a scendere all’ennesimo compromesso, magari addirittura a rinunciare al lavoro, se, come sembra, le scuole non potranno riaprire quando si dovrà tornare in azienda.
Quello che non ci stanno dicendo, ma è ormai tristemente chiaro, è che non solo questo virus ammazza i più fragili. I più fragili, in tante accezioni diverse, saranno anche quelli che pagheranno il dazio maggiore sul medio e sul lungo periodo. I marginali, gli stranieri, i soli. I poveri, per usare un termine della mia infanzia che a quanto pare non è più di moda. I bambini delle periferie, quelli che non hanno una famiglia in grado di sostenerli nello studio a distanza, nel mantenimento di un minimo di socialità e salubrità. Le donne vittime di abuso domestico. I malati di depressione, ansia e altre patologie psichiatriche. Le famiglie di disabili e malati cronici e progressivi. I precari. I cottimisti. Gli atipici. Quelli che lavoravano a nero, non per risparmiare le tasse ma per mancanza di alternative. Per disperazione, per fame. Per ricatto. Quelli che ogni giorno portavano a casa una paga appena sufficiente per arrivare a pancia piena e con la luce accesa fino al giorno successivo.
Quello che non ci stanno dicendo, perché nessuno sa ancora spiegarlo, oppure perché è troppo difficile da dire, è che neanche questa volta, alla fine, riusciremo a trasformare il dolore, il lutto, la perdita nella possibilità di costruire una società più equa, più sostenibile e più solidale.