Pensavate che il parto in acqua rappresentasse l’opzione più dolce per mettere al mondo un figlio? Eravate convinti che l’allattamento precoce e il rooming in fossero il massimo della “naturalità”? Credevate di aver visto tutto, ma proprio tutto, con la storia del parto orgasmico? Forse allora non avete mai sentito parlare del Lotus birth, o parto integrale, una pratica che consiste nel non recidere il cordone ombelicale dopo la nascita, lasciando il bambino unito alla placenta che l’ha nutrito nel grembo materno. E che fine fa, vi starete forse chiedendo, la suddetta placenta una volta espulsa dal corpo della puerpera? Semplice: torna a casa col neonato, sempre collegata al pupattolo attraverso il cordone ombelicale. L’idea, infatti, è quella di lasciare che “la natura faccia il suo corso”, aspettando che il cordone, con annessa la placenta, si stacchi da solo. O, per dirla in termini più new age, che il bimbo sia pronto per separarsi dall’organo materno che ne ha sostenuto la crescita quando era un feto. Sempre che la placenta sia d’accordo, s’intende! Cito infatti da lotusbirth.it: “Il distacco avviene quando entrambi, bambino e placenta, hanno realmente concluso il loro rapporto e decidono sia giunto il momento della separazione”…
Immagino, a questo punto, stuoli di avvocati divorzisti impegnati con coppie di neonati e placente alle prese con separazioni non consensuali (ok, questa era cattiva, lo so…).
I fautori del parto integrale, in sostanza, ritengono il taglio del cordone un atto violento e traumatico e sono convinti che lasciare il neonato unito alla placenta gli permetta di separarsi da sua madre in modo più dolce e graduale, continuando a ricevere sangue placentare e ricavandoneqbenefici dal punto di vista sia fisico che psicologico.
Ma come funziona a livello, per così dire, logistico? In rete si apprende che la placenta deve essere lavata e tamponata dolcemente, per poi essere riposta in un colino, una ciotola o un altro recipiente. Per trasportarla insieme al bambino fino al momento in cui si staccherà è possibile riporla in borse di stoffa appositamente realizzate (!) o semplici federe di cotone. Per evitare le conseguenze della decomposizione (perché di quello si tratta, in buona misura), inoltre, basta cospargere l’organo di sale marino ed eventualmente irrorarlo con qualche goccia di olio essenziale di lavanda, ripetendo il trattamento ogni 24 ore. E quando si stacca? Ho letto di neomamme che l’hanno sepolta in giardino. La pratica del Lotus birth, ovviamente, non è compatibile con la conservazione del sangue cordonale né con la donazione dello stesso.
Sarcasmo a parte, personalmente non credo di essere abbastanza “nature friendly” per chiedere alla mia placenta se è davvero pronta per dirci addio, men che meno per tumularla tra il melograno e l’albero di fichi. Per dirla tutta, l’unica cosa che ho apprezzato del cesareo, dal quale non mi sono mai davvero ripresa sul piano emotivo, è stata quella di non averla dovuta neanche vedere, la placenta (e dire che il mio ginecologo si è sempre complimentato per la sua bellezza!). So che molte mammifere la mangiano, e che lo fanno anche gli attivisti di Scientology, ma per quanto detesti l’eccessiva medicalizzazione della nascita, questo davvero non fa per me. Ho stappato un Moët & Chandon quando si è staccato il moncherino del cordone ombelicale di Davide, figuriamoci tenere nella culla un colapasta con una placenta sotto sale. Detto questo, credo fermamente che ogni donna abbia il diritto di scegliere in che modo partorire, purché questo non nuoccia a suo figlio. Anche se io la mia placenta non voglio guardarla neanche in ecografia, quindi, mi piacerebbe davvero che i punti nascita italiani fossero più informati su questo tema, e attrezzati per garantire alle mamme che lo desiderano il loro dolcissimo parto integrale.
E voi cosa ne pensate? Sareste disposte a tornare a casa dall’ospedale con la vostra placenta in un sacchetto di stoffa?
Altre informazioni sul sito lotusbirth.it.