Qualcuna me lo ha chiesto espressamente non appena ho scritto di essere incinta, e temo che il contenuto di questo post rappresenterà per loro una mezza delusione. No, non farò un vbac (vaginal birth after cesarean, parto vaginale dopo un cesareo) e sì, mi sottoporrò a un secondo cesareo, questa volta programmato, a differenza del primo. Una scelta che, a onor del vero, non ho fatto in prima persona, ma ho sostanzialmente subito con una certa dose di passività. Il ginecologo che mi segue è stato categorico fin dall’inizio, escludendo nella maniera più assoluta la prospettiva di un travaglio di prova (non per questioni contingenti, legate, che so, al mio stato di salute o al tempo intercorso tra una gravidanza e l’altra, ma proprio a priori, “per principio”). Anche il punto nascita in cui darò alla luce il mio secondogenito non promuove il vbac, come la quasi totalità delle strutture ospedaliere della Campania. Sì, perché la realtà è che la mia regione registra un tasso spaventoso di cesarei (credo sia il più alto d’Italia, dovrebbe aggirarsi intorno al 60% del totale), i punti nascita e i medici che promuovono, o anche più semplicemente non osteggiano, il vbac si contano forse sulle dita di una mano sola.
La maggioranza delle mie amiche, parenti e conoscenti che ha avuto figli negli ultimo 8/10 anni è stata tagliata, e tra le mie conoscenze dirette non c’è nessuna donna che abbia avuto un parto naturale dopo il cesareo. Questo non vuol dire che sottoporsi a un travaglio di prova in Campania sia impossibile. Ci sono, per fortuna, professionisti – soprattutto ostetriche – che cercano faticosamente di invertire la rotta, e qualche punto nascita che non esclude la possibilità di un vbac (poche cliniche private e pochissimi ospedali pubblici, forse uno soltanto). Si tratta di una minoranza schiacciante, è vero, ma, ad avercene la forza, un tentativo si può fare anche nella palude preistorica in cui mi trovo a vivere.
Avercene la forza: ecco, per quanto mi riguarda, il punto cruciale è proprio questo.