Agosto incombe, e con lui le ferie di tanti di noi, che sono, quest’anno più che mai, in cerca di un po’ di relax e di una pausa di serenità dopo un anno così faticoso. Andare alle terme di Chianciano con i bambini è davvero un’ottima idea per trascorrere una giornata (o più!) all’insegna del benessere, del divertimento e del riposo, ma anche per stare a contatto con la natura e godersi i piaceri della cucina toscana. Provare per credere!
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Non ricordo nemmeno quando ho preso l’abitudine di rosicchiarmi le unghie e martoriarmi le “pellicine” delle ultime falangi. Per essere ancora più chiara, non rammento proprio la mia vita senza l’onicofagia, ma, in una ideale seduta di “mangiaunghie anonimi”, potrei rievocare facilmente i limitati periodi in cui sono stata libera da questa dipendenza. Nei decenni, tra smalti deterrenti, cerotti, guanti (e psicoterapie, anche se affrontate per altre ragioni), ho sperimentato molte volte il dolore pulsante delle infezioni, la mortificazione delle “mani impresentabili”, i commenti gratuiti e la frustrazione delle inesorabili ricadute. E allora, con leggerezza e senza pretesa di esaustività o autorevolezza medica, vi racconto qualcosa di un problema diffusissimo e sistematicamente sottovalutato, ma che può essere il sintomo di fragilità più generali, o il preludio di forme di autolesionismo più pericolose.
I miei figli (soprattutto il primogenito) non sono esattamente dei fan degli ortaggi. Le verdure invernali e quelle primaverili, in particolare, incontrano raramente il loro consenso per cui, se in estate non faccio troppa fatica a proporre dei contorni di stagione graditi e sani, nei mesi più freddi, proprio quando sarebbe ancora più utile fare il pieno di vitamine, mi trovo spesso in difficoltà da questo punto di vista. Il mio obiettivo resta quello di portare in tavola prodotti di stagione, salvo rarissime eccezioni che cerco davvero di centellinare il più possibile, preferibilmente bio. Ma se con la frutta ce la caviamo abbastanza bene (in questo post realizzato nell’ambito del progetto europeo Made in Nature sul biologico europeo, vi avevo raccontato perché e come scegliere la frutta di stagione biologica), con gli ortaggi facciamo più fatica.
Per riuscire a proporli con successo, allora, cerco di ricorrere a una serie di piccoli trucchi!
Come stanno i nostri figli?
Un anno della nostra vita è ormai trascorso in sgradita compagnia del Covid 19. Un anno che, nell’economia delle esistenze di bambini che di anni ne hanno 7 o 8, o magari ancora meno, ha un peso specifico non indifferente. Ci saranno tanti bambini, suppongo, che la vita “di prima”, la vita normale, attualmente neanche la ricordano.
Da molti mesi, ormai, di fronte alle piccole e grandi “crisi” dei miei figli, mi ritrovo a chiedermi se e quanto dei loro problemi dipenda effettivamente dalla pandemia, dalle limitazioni, dal sostanziale isolamento in cui vivono ormai da tanto tempo. E quanto, invece, non prescinda da questo, non sia magari una normale implicazione della loro crescita e del loro innato temperamento, con cui avremmo in ogni caso dovuto fare i conti. O ancora quanto, ahimè, non sia forse responsabilità di noi genitori, a nostra volta fiaccati da questa specie di incubo distopico nel quale siamo piombati un anno fa.
Davide e Flavia stanno bene, per carità. Ma non ho potuto fare a meno di notare la (ri)comparsa di fragilità, preoccupazioni e ansie: recrudescenze di antiche paure (del buio, della solitudine, dei brutti sogni), risvegli notturni, picchi occasionali di aggressività, onicofagia, periodiche difficoltà con il cibo, ansie alterne legate alle loro pur ampiamente soddisfacenti prestazioni scolastiche, e in particolare ai compiti per casa. Niente di estremamente allarmante, per il momento, né di totalmente estraneo al loro passato di bambini amati e sereni (mi auguro!) ma sensibili, come ce ne sono miliardi in questo pazzo mondo che abbiamo il privilegio di abitare.
Solo che adesso, inevitabilmente, mi ritrovo a inquadrare la situazione con un certo pregiudizio, osservando la realtà attraverso il filtro della consapevolezza. Avremmo vissuto le stesse difficoltà anche senza il lockdown, senza i compleanni in solitaria, senza la ridotta attività motoria, senza la separazione prolungata da tanti amici e familiari, senza gli interminabili mesi di Didattica a distanza (nell’ultimo anno, Davide e i suoi compagni di terza elementare hanno frequentato la scuola per 8 settimane in tutto, prima di finire, come siamo attualmente, di nuovo dietro a un computer)?
Non conoscerò mai la risposta, perché ovviamente la risposta non esiste. Il tempo ci dirà soltanto quante ferite ci resteranno da curare, per noi e per i bambini, inclusi quelli che, per fortuna, il virus non lo hanno mai incontrato da vicino.
Nel corso della mia vita, e non solo una volta, è toccato anche a me di avere a che fare col cancro, anche se (grazie al cielo) mai sulla mia stessa pelle. Come tante altre famiglie, come praticamente tutte le famiglie che conosco. E questo, mio malgrado, mi ha costretto a mettere in fila le cose che ho imparato sul cancro e che oggi, in occasione del #worldcancerday, mi è venuta voglia di condividere con voi:
1. I malati di cancro non sono dei “guerrieri”
Il cancro non è una guerra. Non è una battaglia in cui misurare il proprio valore, in cui resistere e trionfare a colpi di forza di volontà e di coraggio. Non “vincono” i malati più forti o più stoici. E non esiste una sofferenza “più dignitosa” di un’altra. Il cancro è una malattia terribile, che qualche volta guarisce grazie alla tempestività della diagnosi, alla disponibilità di cure efficaci, alla risposta positiva dell’organismo. Non certo perché il paziente si riveli un guerriero più valoroso (o un malato più dignitoso) di un altro. La retorica del guerriero è un colossale equivoco. E forse non è il modo più efficace per raccontare il cancro a chi osserva dall’esterno, né rende giustizia a chi invece si trova ad averci a che fare.
2. Il cancro è il prima e il dopo
Come una deflagrazione cosmica su scala ridottissima, un piccolo big bang personale e familiare. Quello che c’è stato prima, in un certo senso, non tornerà più, a prescindere dall’esito della malattia, dalla sua evoluzione, dalla prognosi che i medici snoccioleranno con più o meno empatia. Tutto quello che hai vissuto prima della diagnosi diventa, nella tua percezione, una specie di età dell’oro in cui ogni cosa era più leggera, più semplice, più lieta, per il solo fatto che in quel momento tu ancora “non sapevi”. Non che sia davvero così, naturalmente. Non che prima non ci fossero sofferenze anche intense, o ragioni serie per cui sentirsi in ansia e restare sveglio la notte. Ma una delle cose che ho imparato sul cancro è che l’esperienza della malattia cambia drasticamente la tua percezione della realtà. È uno spartiacque definitivo e irremovibile. L’origine di una incommensurabile nostalgia. E a volte ti sembra assurdo che il mondo, nel frattempo, continui a rotolare nello spazio come se niente fosse accaduto. Che il resto della gente continui ad andare avanti apparentemente come prima. Ignara e inconsapevole. Al sicuro.
3. Si fa presto a dire “diagnosi precoce”
La diagnosi precoce è importantissima e salva vite a migliaia, ma non sempre è possibile. Spesso il cancro non può essere diagnosticato precocemente, a volte non esistono sintomi d’esordio (o, se esistono, sono difficili da riconoscere) e, in assenza di segnali d’allarme, non possiamo passare la vita a farci ispezionare ogni organo del corpo. Quello che possiamo fare è cercare di condurre uno stile di vita sano, di prenderci cura di noi e di chi amiamo, di stare all’erta. E pretendere che si investa il più possibile nella ricerca, che è la sola strada davvero efficace che abbiamo per rendere il cancro sempre più curabile.
4. L’esperienza dell’impotenza
Il cancro ti fa sentire prima di tutto impotente. Ti fa provare rabbia, angoscia, frustrazione, terrore. Un dolore che non pensavi possibile, che ti stritola dentro e ti brucia fuori. Ma soprattutto, ti condanna a un’impotenza lacerante. Vorresti abbattere il muro che imprigiona chi sta soffrendo, vorresti farti carico del suo male e portare quel peso assieme a lui. Alleggerirlo, sollevarlo, condividerlo. E vorresti rapire chi è vicino ogni giorno alla persona che sta male e vive quel calvario con lei. Portarlo lontano, almeno per un po’. Vorresti, ma non lo puoi fare. E allora, semplicemente, stai lì e ami, perché è tutto quello che ti è concesso. Stai lì e ami, chiedendoti in ogni istante se lo stai facendo in un modo davvero giusto e utile, se quello che fai e quello che sei non sia invece troppo poco. Sapendo che in realtà tutto quello che farai sarà sempre troppo poco. Stai lì, provi ad amare di più e più forte, e metti da parte la tua pena, perché sai che non è niente rispetto a quella di chi sta male davvero, e di altri attorno a te. Ma la tua pena alla fine viene fuori, e ti travolge. Senza che tu possa fare altro che attraversarla, solo e impotente.
5. La vita è un soffio. E noi occidentali lo avevamo dimenticato
Fino alla devastazione della pandemia, noi occidentali contemporanei, colti da un progressivo delirio di onnipotenza, ci eravamo forse illusi di aver imbrigliato la malattia e aver dominato la morte. Di aver capito come governare la natura, in ogni accezione possibile. E oltre a fare danni incalcolabili al nostro pianeta, abbiamo censurato il più possibile l’esperienza della perdita, l’abbiamo rimossa con ogni mezzo dalla nostra consapevolezza collettiva. Ci siamo convinti inconsciamente che il progresso potesse pian piano farci accantonare il dolore, il lutto, la nostra stessa transitorietà. Dimenticando che fino a pochissime generazioni fa era scontato perdere dei figli ancora in fasce, piangere fratelli mai tornati da una guerra o non risparmiati da un’epidemia, seppellire figlie, mogli e madri non sopravvissute al letto da parto. Dimenticando che siamo caduchi e mortali, effimeri, anche quando ci sentiamo giovani e forti, come le foglie estive, appese a un ramo che danza nel vento. Siamo strumenti nelle mani dell’evoluzione, soggetti a leggi universali che non possiamo e non potremo mai sovvertire. E questa consapevolezza, soprattutto alla luce di quello che stiamo vivendo da un anno a questa parte, dovremmo forse recuperarla tutti insieme, non già per tremare di continuo nel terrore della fine, ma al contrario per vivere ogni giorno in pienezza e gratitudine. Senza dare per scontato quello che scontato, invece, proprio non è.
Negli ultimi anni, portare in tavola tre pasti al giorno è diventata per me una sfida impegnativa, in qualche caso addirittura frustrante. La difficoltà che incontro sta nella pretesa di conciliare i gusti e le esigenze nutrizionali di 4 persone diverse con le mie convinzioni in tema di sostenibilità ambientale, con le necessità di salute e ovviamente con il bilancio familiare. Nel riuscire a servire, in poche parole, qualcosa che sia appagante per tutti, ma salutare e allo stesso tempo sostenibile, magari senza svenarsi. Una obiettivo che spesso, per la sottoscritta, si rivela semplicemente impossibile.
Io, per esempio, ho bisogno di contenere il più possibile l’apporto di carboidrati, ma d’altro canto mi sforzo da anni di mangiare carne il meno possibile, e faccio attenzione alla quantità di imballaggi e alla provenienza degli alimenti che scelgo. Per ragioni di salute, però, devo limitare anche i grassi, quindi non posso indulgere eccessivamente in uova e latticini, di cui peraltro sono particolarmente ghiotta. Il resto della famiglia, d’altro canto, preferisce almeno a pranzo mangiare il classico primo, che spesso diventa un piatto unico per riuscire a somministrare a tutti legumi e verdure invernali, che altrimenti non sarebbero affatto graditi. Non sto a dirvi, inoltre, che un altro mio preciso obiettivo consiste nel limitare il ricorso a piatti pronti o processati, di cui comunque ogni tanto non riusciamo a fare a meno, che si tratti delle polpette svedesi surgelate o di un pasto da asporto della gastronomia sotto casa.
Se avessi tempo, volontà ed energie sufficienti, potrei sbizzarrirmi nella preparazione quotidiana di zuppe, verdure, insalate, vellutate e minestre da affiancare alla “cucina standard”, a cui, inevitabilmente finisco col dare la priorità. Ma non è di certo il mio caso, e la realtà è che spesso mi ritrovo a dover scegliere tra una serie di compromessi possibili: arrendermi a un pasto carnivoro, ma che magari è rapido da preparare e rispondente alle mie esigenze nutrizionali. Oppure rassegnarmi a mangiare un pasto che è sì vegetariano, ma troppo processato oppure non esattamente “salubre” o magro. O ancora, e forse questa è l’opzione che mi dà più fastidio, piegarmi al prodotto fuori stagione, che magari “risolve” un contorno, ma tradisce di fatto molti dei miei principi basilari.
Se con i miei commensali spesso me la cavo, per quanto riguarda me stessa non capita di frequente di sedermi a tavola e sentire che sto mangiando davvero “la cosa giusta”, in termini sia di impatto sull’ambiente che di apporto calorico e nutrizionale e di appagamento del gusto. L’obiettivo di sentirmi in forma e soddisfatta e allo stesso tempo “rispettare l’ambiente” e non spendere una fortuna, mi sembra sempre più spesso una chimera irraggiungibile.
So che molte e molti “food influencer”, o semplicemente persone più organizzate di me, si dedicano a una meticolosa preparazione di menu settimanali e provviste di cibo pronto (o quasi) per l’intera settimana. Personalmente, però, non sempre ho voglia di investire il mio prezioso tempo libero ai fornelli. Mi capita di farlo, certo, ma non è una costante. Ci sono molte altre cose che si contendono il mio tempo, a cominciare dai giochi coi miei figli, dai miei amati libri, dalle serie TV.
Voi come fate? Cosa guida le vostre scelte e abitudini alimentari? Riuscite a trovare la quadra, oppure cedete inesorabilmente al compromesso? Forse sono io che pretendo troppo dalla sottoscritta. Non sarebbe la prima volta, d’altra parte.
Nella mia terra, per certi versi, questa “seconda ondata” della pandemia di Covid 19 è di fatto la prima. Nella passata, funesta, primavera – grazie al caso prima e al prolungato lockdown dopo – il virus non era arrivato a circolare in modo significativo nel territorio in cui abito, né in gran parte del sud Italia. Adesso, purtroppo, sta andando diversamente. Tutti noi conosciamo di persona qualcuno che è stato contagiato, quasi tutti abbiamo già dovuto sottoporci a un qualche tipo di test, e il “virus” è da settimane il principale, se non l’unico, argomento di conversazione. Mi sono resa conto di trovarmi in grande difficoltà emotiva e psicologica, più ancora che ad aprile. Allora ho provato a stilare un piccolo promemoria che spero possa aiutarmi a non “impazzire” in questa seconda ondata. E che condivido volentieri con voi (sperando di essere in grado di prestarvi fede!).
Primo: contagiarsi non è una colpa
O perlomeno, di solito non lo è. Conosco persone che rispettavano pedissequamente e con zelo le norme di distanziamento, protezione e igiene personale. Eppure, purtroppo, sono state infettate comunque. Il Covid 19 è molto contagioso, a volte non sono sufficienti nemmeno le precauzioni più accorte. Ovviamente, ciò non toglie che in qualche caso la propagazione del virus avvenga a causa di comportamenti irresponsabili, e che dobbiamo sempre cercare di proteggere noi stessi e gli altri nel modo migliore possibile, ed evitare atteggiamenti incauti.
Corollario: se contagi qualcuno, non sei un mostro
Il senso di colpa e l’ansia possono lacerarti se ti succede di contagiare qualcuno, oppure se hai timore di averlo fatto, magari senza alcun elemento concreto per pensarlo davvero. Ma la verità è che, se hai utilizzato ogni precauzione possibile, se sei stato attento e prudente, non puoi tormentarti per aver involontariamente veicolato l’infezione ad altri.
Secondo: il vero “nemico” è il virus
Le istituzioni avrebbero potuto fare di più per limitare la diffusione dell’epidemia? Alcune persone si comportano in modo troppo superficiale? I negazionisti contribuiscono a peggiorare la situazione? Il governo cinese avrebbe potuto diffondere informazioni più precise e tempestive? Forse sì. Probabilmente sì. Ma la colpa di quello che succedendo, ammesso che di “colpa” si possa parlare, resta del virus (che poi anch’esso, a ben vedere, non ha una volontà di infierire né una intrinseca perfidia, ma si comporta semplicemente come è programmato per fare). Cercare colpevoli aiuta forse a incanalare la rabbia,
Corollario: gli altri esseri umani non sono un pericolo
Qualche tempo fa mi trovavo con i miei figli in un parco cittadino. Era un orario poco affollato, e passeggiavamo nella zona più “naturale” e isolata del parco, per cui eravamo di fatto completamente soli. A un certo punto si sono avvicinati dei ragazzini (peraltro tutti provvisti di regolare mascherina) e Flavia mi ha detto allarmata: “Guarda, mamma: delle persone!”. Ho capito che esiste il rischio concreto che finiamo inconsciamente col ritenere i nostri simili un potenziale pericolo, dei “nemici” dai quali guardarsi. È una prospettiva davvero angosciante, per quanto mi riguarda. Proviamo a sorridere con lo sguardo al passante che incrociamo, a salutare chi ci precede nella fila alle casse, a non indagare gli altri con lo sguardo, per vedere se indossano correttamente la mascherina o se si toccano i capelli senza pensarci.
Terzo: non dobbiamo guardarci, purtroppo, solo dal Covid
Qualche giorno fa sono andata a correre in una zona isolata e periferica, in un orario “deserto”. Ho pensato che fosse la soluzione più sensata dal punto di vista della prevenzione del contagio, e probabilmente avevo ragione. Ma non avevo messo in conto quello che poi è accaduto: mi sono sentita insicura per la presenza di personaggi un po’ “loschi”, per il degrado attorno a me e per la totale solitudine, tanto da cambiare itinerario e rientrare a casa in anticipo. Si tratta solo di un esempio, forse neanche tanto calzante, per dire che l’attenzione nei confronti del Covid 19 non deve farci abbassare la guardia rispetto ad altri pericoli. Qualche esempio?? Palpiamoci il seno regolarmente, cerchiamo di mantenerci “in forma”, di non fumare o bere troppo (sigh!), di non mangiare troppo male.
Quarto: non parliamo sempre della stessa cosa
Questo 2020 è l’anno del Covid, certo. Ma la vita scorre più forte dell’epidemia. Ci sono bambini che nascono, amori che sbocciano, figli che crescono. Esperienze che meriterebbero la nostra attenzione ma a cui spesso non riusciamo più a dare importanza, travolti e angosciati dalla convivenza con il virus (io, per esempio, ho comprato la lavastoviglie: vi pare poco?).
Corollario: non dimentichiamoci di vivere
Lo avevo già scritto, a primavera. Anche se non sempre sono riuscita a mantenere la parola. Questi mesi ineffabili non ci verranno scontati dal computo complessivo di quelli “andati”. Nessun arbitro sancirà un lungo recupero per compensare il tempo che la pandemia ci ha preso senza chiedere il permesso. Ci tocca vivere a fondo ogni giorno, anche se non possiamo viaggiare, uscire, mangiare fuori o incontrare gli amici. Perché la vita che non viviamo oggi, sarà perduta per sempre.
La pandemia ce lo ha ricordato una volta di più, in modo prepotente e drammatico: dal punto di vista dell’accesso a cure mediche, farmaci, ospedali e diagnosi, non siamo tutti uguali, non tutti abbiamo le stesse possibilità. E, soprattutto, l’emergenza che sta tornando a mordere in modo sempre più feroce ci sta facendo in qualche modo capire cosa significhi vivere senza la certezza di terapie adeguate e disponibili per tutti. Quello che nella parte di mondo meno “fortunata” è di fatto la norma, anche per malattie che a noi, per fortuna, fanno molta meno paura del Covid 19. Non è una colpa, naturalmente, essere nati nati nel posto “giusto” e godere del diritto alla salute e alla cura, ma non è neanche un merito. E possiamo fare tanto per dare una mano a chi, altrettanto incolpevole, non ha avuto questo privilegio.
Fa tanto, per esempio, Medici Senza Frontiere, che ogni giorno presta il proprio servizio per curare, in tutto il mondo, migliaia di persone colpite da conflitti, epidemie, catastrofi naturali o escluse dall’assistenza sanitaria. Anche da quando è scoppiata la pandemia di Covid 19. Interventi umanitari che vengono finanziati al 100% da donazioni private, per garantire all’organizzazione la totale indipendenza e neutralità. Per ogni euro raccolto, Medici Senza Frontiere destina 81 centesimi ai suoi progetti in oltre 70 Paesi del mondo: vaccinazioni, interventi, diagnosi, medicinali. E, in questo difficile 2020, guanti, mascherine e altri dispositivi di protezione che possono davvero fare la differenza nella lotta al Coronavirus. Il resto dei fondi raccolti viene impiegato, sempre con la massima trasparenza, per finanziare la raccolta di ulteriori fondi e la gestione dell’organizzazione.
Un modo semplice e concreto con cui tutti possiamo contribuire al lavoro di Medici Senza Frontiere consiste nella scelta di bomboniere solidali per tutti gli eventi importanti, le ricorrenze familiari e le celebrazioni. In questo modo, le persone che amiamo possono ricevere un ricordo simbolico e adorabile, un segno tangibile del nostro affetto e della nostra gratitudine nei loro confronti. E, allo stesso tempo, noi possiamo contribuire, con un piccolo investimento, a “portare” medici, farmaci, diagnosi e terapie adeguate laddove, altrimenti, ci sarebbero solo paura e solitudine.
Nella bottega solidale di Medici Senza Frontiere sono disponibili ricordi e bomboniere di tanti tipi e perfette per celebrare ogni occasione importante. Come le deliziose bomboniere solidali battesimo a forma di aeroplanino che vedete nelle foto di questo post, e che io mi sono divertita a montare con Davide e Flavia. Una scelta che è anche sostenibile, visto che le bomboniere solidali di Medici Senza Frontiere sono realizzate con materiali rinnovabili ed ecofriendly.
Vi ricordo infine che le bomboniere solidali, come tutte le donazioni a Medici Senza Frontiere, possono essere detratte o dedotte dalla dichiarazione dei redditi.
Alle madri che ogni giorno corrono, pensano, fanno, inventano e si reinventano. Alle madri che a volte hanno la sensazione di non farcela, ma che alla fine vanno avanti con risorse che nemmeno pensavano di avere. Alle madri che non hanno paura di sbagliare, perché sono semplicemente umane. Alle madri che danno il massimo in ogni momento, ma che non si sentono delle supereroine, io dico soltanto: non siete sole. Tutte noi ogni tanto abbiamo bisogno di qualcosa in più. Di qualche ora di tempo extra, un po’ più di equità, un po’ di silenzio in più. Di pazienza. Di empatia. E tutte le madri, ogni tanto, hanno bisogno di una batteria di riserva, di un piccolo surplus di energia, di forza, di protezione. A volte per affrontare la vita frenetica e i mille impegni quotidiani può servire ogni tanto una integrazione di Vitamina C. E la stessa esigenza può presentarsi per i loro figli, soprattutto in periodi di particolare stress o fatica. La Vitamina C è una sostanza fondamentale per il benessere dell’organismo, coinvolta ad esempio nella produzione del collagene e nella riparazione dei tessuti, costituendo inoltre un sostegno delle difese immunitarie. Non proprio un superpotere, insomma, ma un aiuto prezioso, in grado di esercitare un’azione tonificante e antiossidante sull’organismo.
Quando è necessario integrare l’apporto di Vitamina C nell’organismo, si può scegliere un prodotto completamente naturale, in grado di essere assorbito più in fretta dall’organismo ed eliminato più lentamente, garantendo una maggiore biodisponibilità (fino al 48% in più) rispetto alla Vitamina C di sintesi. I laboratori farmaceutici Arkopharma hanno creato un integratore di vitamina C di origine 100% vegetale, privo di qualsiasi ingrediente di sintesi. La fonte di vitamina C di Arkovital Acerola 1000 è l’Acerola (Malpighia glabra), una pianta originaria del centro e sud America che produce frutti simili alle ciliegie, con una concentrazione di vitamina C fino a 50 volte superiore a quella contenuta nell’arancia.
Arkovital Acerola 1000 può essere utile per ritrovare energia e ridurre la stanchezza, per sostenere le difese immunitarie e contrastare la carenza di Vitamina C, anche nei soggetti fumatori. Può essere utilizzata da adulti e adolescenti (a partire dai 15 anni la dose consigliata è di una compressa al giorno), ma anche dai bambini a partire dai 6 anni (mezza compressa masticabile al giorno, anche se ha un sapore così gradevole che Davide vorrebbe volentieri prenderne di più!). Perché le mamme non possono avere i superpoteri, ma a volte possono contare su un aiuto in più.
Voi avete mai utilizzato un integratore di Vitamina C? Vi è stato di aiuto? Avete optato per un prodotto di origine sintetica o vegetale? Raccontatemi la vostra esperienza, se vi va, nei commenti o sulla mia pagina Facebook.
Post in collaborazione con Arkopharma
Come inquinare meno durante la pandemia? Tra prodotti monouso, mascherine e disinfettanti di ogni genere, la convivenza con il Covid 19 rischia di avere pesanti conseguenze anche sul piano ambientale. E così, dall’esultanza per l’ambiente “risanato” durante i mesi di lockdown globale o quasi, rischiamo di passare alla preoccupazione per i rifiuti e l’impatto sull’ambiente. Posto che di alcune pratiche non è al momento possibile fare a meno in alcun modo, ecco qualche semplice accorgimento che è possibile adottare per inquinare meno durante la pandemia.
Se possibile, mascherine lavabili
Ci sono situazioni in cui è opportuno e consigliabile utilizzare mascherine usa e getta con un’efficacia filtrante maggiore, e per determinate persone più a rischio questa è un’esigenza quotidiana imprescindibile. In altre circostanze, però, quando è richiesta una cautela in un certo senso più “moderata” (per esempio quando si prevede di restare all’aperto o di riuscire a evitare contatti ravvicinati con altre persone), è possibile optare per una mascherina lavabile. Scegliete in ogni caso prodotti di buona qualità, con più strati TNT ed eventuali strati idrorepellenti. Questo ovviamente permetterà di ridurre in modo considerevole la produzione di rifiuti non riciclabili e di inquinare meno durante la pandemia che stiamo purtroppo fronteggiando. Le mascherine lavabili vanno utilizzate con la stessa attenzione di quelle monouso, evitando di toccarle e conservandole con cura. Devono inoltre essere lavate spesso e sostituite definitivamente quando si deteriorano.
I guanti? Solo se necessario
Un altro sistema per inquinare meno durante la pandemia e ridurre la produzione di spazzatura consiste nel limitare allo stretto indispensabile l’uso di guanti in lattice. Nelle prime settimane dopo il lockdown, molti esercizi commerciali richiedevano ai clienti di indossare dei guanti usa e getta. Quest’obbligo è decaduto dopo qualche tempo, e ora, in linea generale, non è necessario portare dei guanti monouso per tutelarsi in misura maggiore. Fanno eccezione, sempre meglio ribadirlo, specifiche categorie professionali e situazioni particolari in cui occorre una protezione ad hoc.
Gel igienizzante: maxi formato o fai da te
La pulizia delle mani è diventata una questione ancora più pressante e prioritaria, da quando ci troviamo nostro malgrado a convivere con il nuovo Coronavirus. Per limitare l’impatto sull’ambiente di migliaia e migliaia di minuscoli flaconcini di gel igienizzante, si può optare per confezioni di formato maggiore, utilizzandole all’occorrenza anche per “ricaricare” le boccette più piccole. In alternativa, si può ricorrere alla ricetta dell’OMS per il disinfettante per le mani, puntando sull’autoproduzione e sui rifiuti zero. Entrambe queste soluzioni, tra l’altro, garantiscono anche un risparmio economico. Ricorda inoltre che non è sempre indispensabile igienizzarsi le mani con un disinfettante idroalcolico: se ne hai la possibilità puoi lavarti accuratamente le mani con acqua e sapone.
Inquinare meno durante la pandemia: la differenziata
Un altro aspetto da tenere in grande considerazione per cercare di inquinare meno durante la pandemia è l’attenzione alla raccolta differenziata. Le confezioni delle mascherine, per esempio, contengono spesso sia sacchetti di plastica che scatole o foglietti illustrativi in carta. Le mascherine stesse, invece, vanno smaltite nell’indifferenziato, inserendole possibilmente in un ulteriore sacchetto se si è positivi al virus, così come i fazzoletti utilizzati per soffiarsi il naso (qui le indicazioni ufficiali dell’Istituto Superiore di Sanità). Ovvietà delle ovvietà: nessuna mascherina dovrebbe essere dispersa mai nell’ambiente. Purtroppo può capitare a tutti di perderne una per strada, magari si può ridurre questo rischio abituandosi, piuttosto che a tenerle in tasca o “lanciarle” nella borsa, a conservarle in un apposito astuccio o sacchetto. Il che per inciso è importante anche dal punto di vista igienico.
Non abusare di disinfettanti ambientali
La pandemia da Covid 19 ha determinato, a livello globale, un drastico aumento del ricorso a pratiche come la disinfezione, sanificazione etc. Posto che si tratta di procedure fondamentali per arginare il contagio e al momento irrinunciabili, l’uso massiccio di disinfettanti ambientali presenta purtroppo una serie di rischi sul piano ambientale. Alcuni disinfettanti come la candeggina, infatti, oltre a essere potenzialmente tossici o irritanti per gli esseri umani, hanno un effetto molto inquinante sugli ecosistemi acquatici e sui microrganismi. Come regolarsi, allora, per evitare l’eccesso di disinfezione? Ho trovato queste raccomandazioni dell’ISS che si riferiscono in particolare proprio ai prodotti a base di ipoclorito di sodio (come la candeggina, appunto).
Voi adottate degli accorgimenti per cercare di inquinare meno nonostante la pandemia? Che tipo di compromessi non riuscite a evitare, e quali trucchi avete invece da suggerire?