Quando ho scoperto di essere incinta per la prima volta, ho sperato con forza che fosse un maschio, e ho provato un reale sollievo quando ho saputo che sarebbe nato Davide. Non mi sentivo proprio attrezzata per essere “madre di femmina”. Io che non coltivo interessi tanto “femminili” (stando ai pregiudizi più diffusi, perlomeno). Io che non ho mai avuto l’abitudine, e forse neanche l’occasione, di condividere con mia madre quelle attività considerate prettamente “da donna”, che si tratti di una sessione di shopping o di una seduta dall’estetista. Io che in effetti non ci sono mai andata, dall’estetista, e che faccio shopping soltanto online. Io che sono cresciuta con amiche preziose, ma frequentate quasi solo in comitiva, con la compagnia sempre presente dei nostri amici, dei nostri rispettivi fidanzati, che erano allo stesso tempo amici di tutte le altre. Con la compagnia dei maschi, insomma. Io che non capisco un’acca di vestiti, trucco, borse, che non ho mai tinto i capelli in 40 anni. Io che alle commedie romantiche preferisco di gran lunga le saghe da nerd, io che da ragazza leggevo la Gazzetta dello Sport e giocavo al fantacalcio. Io che non so camminare sui tacchi e che ho un ricordo terrificante del mio addio al nubilato (non per colpa mia, questo si metta agli atti).
Mi sembrava, in un certo senso, che mi mancassero dei pezzi. Come avrei potuto rappresentare un qualche modello per una eventuale figlia? Come avrei mai saputo relazionarmi con lei con empatia ma senza immedesimazione, con cameratismo ma senza una pericolosa distorsione del mio ruolo materno? Chi le avrebbe insegnato a pettinarsi, a darsi lo smalto, ad abbinare gli accessori? Mi avrebbe trovata patetica? Sarei riuscita a piacerle, a comprenderla e a trovare un terreno comune in cui affondare radici vitali per il nostro rapporto, e sulla cui base costruire solidi ricordi per la vita?
La seconda volta che mi sono ritrovata con un test di gravidanza positivo tra le dita, appena un anno dopo la nascita del mio primo figlio, il cuore mi ha colto totalmente di sorpresa. All’improvviso mi sono accorta di avere un bisogno irrazionale, insopprimibile e del tutto inedito di avere una figlia. Una necessità quasi fisica, acuita dalla consapevolezza che non avrei avuto altre occasioni, perché sapevo bene che una terza gravidanza non l’avrei cercata mai. Tutto a un tratto, il desiderio di ritrovarmi “madre di femmina” era così forte che si manifestava nei miei sogni, tanto che ho faticosamente convinto mio marito a non farci rivelare il sesso del nascituro, perché avevo paura di non godermi abbastanza la gestazione, se mi avessero detto che aspettavo un altro maschietto.
Dal giorno del mio secondo parto cesareo, quando un’ostetrica mi informò divertita che avevo appena avuto una femmina, sono passati poco più di sei anni. Troppo presto, decisamente, per dire se sono anche solo vagamente all’altezza del compito di crescere una bambina. Di essere sua madre. Però qualcosa l’ho imparata, e in effetti era anche ora che lo facessi. Per esempio, che la femminilità non è un luogo comune e che per intendersi – per amarsi – non è necessario coltivare gli stessi interessi. Sicuramente non sarò mai in grado di insegnare a mia figlia a camminare sui tacchi, né di intrecciarle i capelli come si deve. Forse lei non si unirà mai a me e suo fratello nella visione fanatica del Signore degli Anelli o di Guerre Stellari, e forse verrà presto il giorno in cui mi giudicherà sciatta e trascurata a causa del mio aspetto fisico. Ma quando penso alla donna che mia figlia diventerà, sono insindacabilmente certa che non smetterò mai di comprenderla, di supportarla, di incoraggiarla. Di sostenerla nel proprio cammino verso la conoscenza di sé e la sua piena realizzazione. Sperando che un giorno, almeno, possa appassionarsi a Games of Thrones.