L’eredità di mia madre risiede in una quantità di cose piccolissime eppure importanti e inestimabili. Cose probabilmente mai indispensabili, ma che in fondo sono le sole in grado di fare davvero la differenza. Quel genere di cose superflue e allo stesso tempo necessarie. Non dovute, ma che, quando a un certo punto ti rendi conto di averle perse per sempre, ti mancano con una disperazione che prima non avresti mai saputo immaginare.
dolore
Quando la malattia entra nella tua vita pur senza toccarti personalmente, rischi di ammalarti a tua volta, anche se da fuori nessuno se ne accorge.
Rischi di ammalarti del senso di colpa, prima di tutto. Non solo e non tanto della “vergogna dei sani” che hanno ancora le mani che funzionano, il cuore che batte a un ritmo sicuro e regolare, la mente e il passo giovani e saldi. Ma soprattutto della vergogna inconfessabile di chi, quella fortuna di essere ancora sano e forte vuole continuare a esercitarla, a onorarla, a goderne come può. Perché quando la malattia irrompe nella tua vita, o vi ritorna di prepotenza, prima o poi ti assale quel dubbio dilaniante: come puoi continuare ad andare al cinema, a laccarti le unghie, a uscire con un’amica, a mangiare sushi e bere vino? Come puoi pensare di ridere coi tuoi figli, di fare una gita fuori porta, di fare l’amore con tuo marito o di comprarti un vestito nuovo, se intanto qualcuno che ami continua a star male?
C’è un pensiero che mi accompagna, senza farmi compagnia, da alcuni giorni.
Un pensiero per niente estivo e per certi versi censurabile, che è difficile condividere perché è difficile da ascoltare. Da fronteggiare.
Il pensiero del male che, inevitabilmente, finiamo col fare ai nostri figli.
È un’idea che tendiamo d’istinto a rimuovere, per fortuna, un po’ come cancelliamo, per la maggior parte del tempo, la consapevolezza della morte che ci attende inevitabile. La natura, nella sua infinita saggezza, ci garantisce una generosa dose di oblio e di dimenticanza, che ci consente di andare avanti in serenità e goderci l’esistenza un giorno dopo l’altro.
Nel corso della mia vita, e non solo una volta, è toccato anche a me di avere a che fare col cancro, anche se (grazie al cielo) mai sulla mia stessa pelle. Come tante altre famiglie, come praticamente tutte le famiglie che conosco. E questo, mio malgrado, mi ha costretto a mettere in fila le cose che ho imparato sul cancro e che oggi, in occasione del #worldcancerday, mi è venuta voglia di condividere con voi:
1. I malati di cancro non sono dei “guerrieri”
Il cancro non è una guerra. Non è una battaglia in cui misurare il proprio valore, in cui resistere e trionfare a colpi di forza di volontà e di coraggio. Non “vincono” i malati più forti o più stoici. E non esiste una sofferenza “più dignitosa” di un’altra. Il cancro è una malattia terribile, che qualche volta guarisce grazie alla tempestività della diagnosi, alla disponibilità di cure efficaci, alla risposta positiva dell’organismo. Non certo perché il paziente si riveli un guerriero più valoroso (o un malato più dignitoso) di un altro. La retorica del guerriero è un colossale equivoco. E forse non è il modo più efficace per raccontare il cancro a chi osserva dall’esterno, né rende giustizia a chi invece si trova ad averci a che fare.
2. Il cancro è il prima e il dopo
Come una deflagrazione cosmica su scala ridottissima, un piccolo big bang personale e familiare. Quello che c’è stato prima, in un certo senso, non tornerà più, a prescindere dall’esito della malattia, dalla sua evoluzione, dalla prognosi che i medici snoccioleranno con più o meno empatia. Tutto quello che hai vissuto prima della diagnosi diventa, nella tua percezione, una specie di età dell’oro in cui ogni cosa era più leggera, più semplice, più lieta, per il solo fatto che in quel momento tu ancora “non sapevi”. Non che sia davvero così, naturalmente. Non che prima non ci fossero sofferenze anche intense, o ragioni serie per cui sentirsi in ansia e restare sveglio la notte. Ma una delle cose che ho imparato sul cancro è che l’esperienza della malattia cambia drasticamente la tua percezione della realtà. È uno spartiacque definitivo e irremovibile. L’origine di una incommensurabile nostalgia. E a volte ti sembra assurdo che il mondo, nel frattempo, continui a rotolare nello spazio come se niente fosse accaduto. Che il resto della gente continui ad andare avanti apparentemente come prima. Ignara e inconsapevole. Al sicuro.
3. Si fa presto a dire “diagnosi precoce”
La diagnosi precoce è importantissima e salva vite a migliaia, ma non sempre è possibile. Spesso il cancro non può essere diagnosticato precocemente, a volte non esistono sintomi d’esordio (o, se esistono, sono difficili da riconoscere) e, in assenza di segnali d’allarme, non possiamo passare la vita a farci ispezionare ogni organo del corpo. Quello che possiamo fare è cercare di condurre uno stile di vita sano, di prenderci cura di noi e di chi amiamo, di stare all’erta. E pretendere che si investa il più possibile nella ricerca, che è la sola strada davvero efficace che abbiamo per rendere il cancro sempre più curabile.
4. L’esperienza dell’impotenza
Il cancro ti fa sentire prima di tutto impotente. Ti fa provare rabbia, angoscia, frustrazione, terrore. Un dolore che non pensavi possibile, che ti stritola dentro e ti brucia fuori. Ma soprattutto, ti condanna a un’impotenza lacerante. Vorresti abbattere il muro che imprigiona chi sta soffrendo, vorresti farti carico del suo male e portare quel peso assieme a lui. Alleggerirlo, sollevarlo, condividerlo. E vorresti rapire chi è vicino ogni giorno alla persona che sta male e vive quel calvario con lei. Portarlo lontano, almeno per un po’. Vorresti, ma non lo puoi fare. E allora, semplicemente, stai lì e ami, perché è tutto quello che ti è concesso. Stai lì e ami, chiedendoti in ogni istante se lo stai facendo in un modo davvero giusto e utile, se quello che fai e quello che sei non sia invece troppo poco. Sapendo che in realtà tutto quello che farai sarà sempre troppo poco. Stai lì, provi ad amare di più e più forte, e metti da parte la tua pena, perché sai che non è niente rispetto a quella di chi sta male davvero, e di altri attorno a te. Ma la tua pena alla fine viene fuori, e ti travolge. Senza che tu possa fare altro che attraversarla, solo e impotente.
5. La vita è un soffio. E noi occidentali lo avevamo dimenticato
Fino alla devastazione della pandemia, noi occidentali contemporanei, colti da un progressivo delirio di onnipotenza, ci eravamo forse illusi di aver imbrigliato la malattia e aver dominato la morte. Di aver capito come governare la natura, in ogni accezione possibile. E oltre a fare danni incalcolabili al nostro pianeta, abbiamo censurato il più possibile l’esperienza della perdita, l’abbiamo rimossa con ogni mezzo dalla nostra consapevolezza collettiva. Ci siamo convinti inconsciamente che il progresso potesse pian piano farci accantonare il dolore, il lutto, la nostra stessa transitorietà. Dimenticando che fino a pochissime generazioni fa era scontato perdere dei figli ancora in fasce, piangere fratelli mai tornati da una guerra o non risparmiati da un’epidemia, seppellire figlie, mogli e madri non sopravvissute al letto da parto. Dimenticando che siamo caduchi e mortali, effimeri, anche quando ci sentiamo giovani e forti, come le foglie estive, appese a un ramo che danza nel vento. Siamo strumenti nelle mani dell’evoluzione, soggetti a leggi universali che non possiamo e non potremo mai sovvertire. E questa consapevolezza, soprattutto alla luce di quello che stiamo vivendo da un anno a questa parte, dovremmo forse recuperarla tutti insieme, non già per tremare di continuo nel terrore della fine, ma al contrario per vivere ogni giorno in pienezza e gratitudine. Senza dare per scontato quello che scontato, invece, proprio non è.
Dovevamo diventare migliori.
Più consapevoli. Più grati. Più altruisti.
Dovevamo diventare più empatici e – per usare una parola che ho imparato nei primi anni 2000 per l’esame di Ecologia e che adesso non sopporto perché si usa troppo e non sempre a proposito – più resilienti.
Ma come avremmo potuto, di fronte alla prova a cui siamo stati chiamati?
Ci siamo progressivamente schierati tutti contro tutti. Divisi in categorie – i genitori e i non-genitori, i giovani e i vecchi, i settentrionali e i meridionali, i responsabili e gli incoscienti, i dipendenti e le partite iva, gli insegnanti e tutti gli altri lavoratori – eppure soli, arroccati disperatamente nell’unico dolore che conosciamo, il nostro.
Siamo stati progressivamente travolti da un flusso ininterrotto e ridondante di informazioni, spesso contraddittorie, vaghe o semplicemente incomprensibili. A volte destinate a essere smentite, ridimensionate o corrette nel giro di poche ore o di pochi giorni. C’è chi ha finito col non sapere più a chi o a cosa credere.
Le nostre interazioni sono state affidate a mezzi aridi e spesso asincroni, fraintendibili e freddi. Basati su filtri che ci consentono di tirare fuori senza vergogna il peggio di noi, di additare il colpevole di turno, trincerati nel nostro anonimato informatico. Qualcuno si è abituato a urlare, tanti si sono ridotti a un silenzio difensivo e disarmato.
Siamo stati chiamati a prendere decisioni terribili. A vivere con il peso di responsabilità schiaccianti. A farci medici dei nostri genitori anziani, a diventare insegnanti, allenatori e psichiatri dei nostri figli piccoli. A scegliere il male minore tra due prospettive a volte disarmanti, a decidere con quale paura o con quale senso di colpa convivere, sapendo peraltro che qualsiasi scelta ci tirerà comunque addosso critiche, allusioni e commenti.
Abbiamo distillato lentamente il veleno della nostra frustrazione, inchiodati alle differenze che ci affliggono da ben prima del fantomatico “paziente zero”. Abbiamo stilato l’aberrante classifica dei privilegiati tra i privilegiati, facendo a gara per stabilire chi se la stia passando peggio e chi abbia più diritto a lamentarsi.
Forse poteva andare solo nel modo in cui è andata. O magari stiamo pagando un prezzo altissimo a causa di errori che potevano essere evitati. Io non lo so, ho smesso di chiedermelo molto tempo fa perché in fondo non ha alcuna importanza.
Vorrei solo trovare un senso a questa roba faticosa che è diventata la vita, ma forse è troppo presto. O più probabilmente, non esiste alcun senso: siamo solo animali, dopo tutto, in balia di meccanismi naturali più grandi di noi.
Se vi chiedessi quanto condividete coi vostri compagni la fatica quotidiana di badare alla casa e di accudire i figli, cosa mi rispondereste? Molte di voi, in assoluta buona fede, direbbero che nella propria famiglia tutto viene diviso “al 50 e 50”, e che anche i propri compagni si occupano di cucinare, pulire la casa, fare la spesa, cambiare pannolini e mettere a letto i bimbi. Benissimo. Ma se vi chiedessi quanto sono coinvolti i padri nell’organizzazione del quotidiano, quanto sopportano con voi il carico mentale estenuante che c’è dietro la gestione di una famiglia, allora che cosa mi rispondereste? Chi tiene i rapporti con il pediatra, chi si ricorda di prenotare le vaccinazioni e poi tiene a mente gli appuntamenti? Chi dialoga “quotidianamente” con insegnanti e rappresentanti di classe, chi tiene i rapporti con gli amichetti e i loro genitori? Chi si occupa di comprare i regali quando si viene invitati a un compleanno, chi fa caso al corredo scolastico mancante, chi è che si rende conto che è quasi ora di fare il cambio di stagione, e di integrare eventualmente il guardaroba dei bambini? Se la risposta è “entrambi allo stesso modo”, fidatevi: siete parte – per merito, per caso o per fortuna, poco importa – di quella sparuta minoranza di famiglie in cui non solo il lavoro “materiale”, ma anche quello “gestionale” e logistico viene ripartito equamente tra padre e madre.
Lo chiamano “carico mentale”, appunto, e a volte è così pesante da diventare una zavorra insostenibile, che ti schiaccia fino a toglierti il fiato e la lucidità. Per me, più che altro, è come una folla di voci che mi si accavallano dentro la testa, una quantità di informazioni sovrapposte su cui il mio cervello non riesce a mantenere il controllo o a stabilire delle gerarchie di priorità. E che sembrano fuggire nel vento come post-it attaccati malamente a una bacheca troppo affollata. È una sensazione fisica, proprio. La sensazione di una mole di dati che trabocca incontenibile dal mio cranio, che frana verso il basso e minaccia in ogni istante di seppellirmi.
Per anni, anche a casa nostra, il carico mentale era decisamente sbilanciato a mio sfavore. Lo schema, di solito, era sempre lo stesso: cominciavo una qualsiasi attività – un articolo da consegnare, una lavatrice, la lista della spesa, la fattura per un cliente – e mi ricordavo all’improvviso di altre scadenze, responsabilità, incombenze improcrastinabili in attesa da troppo tempo. E così, magari, lasciavo in sospeso ciò che stavo facendo per dedicarmi a quella che, nel caos, mi pareva in quel momento la questione più urgente (per esempio: scrivere al pediatra per programmare finalmente il controllo), ma nel frattempo pensavo già agli zaini per la palestra da preparare, al bollo auto scaduto la settimana precedente, ai quaderni nuovi che andavano tassativamente comprati entro sera, alle pappe per il gatto da ordinare con urgenza. Alla fine, spesso e volentieri, mi ritrovavo sfinita. Sopraffatta dalla mole insostenibile di responsabilità, di scadenze da tenere a mente, di imprevisti da fronteggiare. E non riuscivo a fare al meglio nessuna delle cose tra le quali mi sarei dovuta barcamenare.
Non è solo una questione di organizzazione o di metodo. Più semplicemente, a volte quello che ci viene richiesto (magari anche da noi stesse) è davvero troppo. “I pensieri”, li chiamava mia nonna – a volte vorrei avere un pensatoio come Albus Silente, per alleggerire il peso che grava sulla mia testa. In realtà si chiama carico mentale, ma è lo stesso. E quello che accade è che spesso e volentieri questo carico non sia distribuito in modo equo nella coppia genitoriale, ma finisca col ricadere principalmente sulle madri (e sulle donne in genere, perché vale anche per esempio per chi ha genitori anziani da accudire).
Ma non esiste alcuna ragione biologica per cui debba spettare alle donne il compito di tenere le fila di “quel che c’è da fare”. I padri, e i maschi in generale, non sono al mondo per fare “il braccio armato”, gli esecutori materiali di istruzioni impartite dalle proprie compagne. Quello che ci condanna a questa iniqua spartizione della fatica e dello stress è solo un pregiudizio. Un retaggio culturale che poteva funzionare, forse, quando le donne lavoravano “soltanto” dentro casa, ma che adesso è un modello obsoleto, inefficace e totalmente ingiusto.
La coppia di cui faccio parte, dopo un periodo davvero critico per la sottoscritta, sta tentando da tempo di imparare a dividersi il carico mentale più alla pari. È un processo lungo e complesso, che ha comportato (e ancora causerà) discussioni, contrasti e incomprensioni. Notti trascorse a parlare, accessi di rabbia, fatica. Sofferenza. Perché anche se chi sta “dall’altra parte”ha tutta la buona fede del mondo, non è facile e non è immediato cambiare visione e abitudini nel profondo. Rendersi conto di quello che bisogna provare a modificare. Ma per quanto tempo ed energie richiederà, riuscire nell’impresa di redistribuire il carico mentale è una sfida irrinunciabile, una conquista cruciale per il benessere della nostra famiglia. E sono certa che sia così anche nelle case di molti di voi.
*La bellissima illustrazione è della mia amica Elisabetta Bronzino “Minoma”, che ringrazio per aver tradotto in arte, con talento e grande efficacia, quello che le mie parole volevano esprimere.
C’è chi ha un lavoro stabile e garantito, ma si ritrova a farlo da casa mentre deve occuparsi di un bambino piccolissimo, e si sente sopraffatto dalla responsabilità e dalla fatica, fino al punto di non riuscire più a respirare. Chi ha contratto debiti per mettere a norma una palestra, un teatro, una sala di registrazione e che ora si chiede perché mai debba chiudere, consegnandosi all’indigenza, nonostante tutti gli sforzi compiuti. Chi ha investito ogni risparmio in un piccolo ristorante e adesso non riesce a dormire pensando alle nubi che si addensano sul proprio avvenire. Chi un lavoro ce lo aveva e lo ha perso, chi ha una partita IVA e non fattura niente da mesi, chi un’occupazione decente la stava cercando e adesso dispera definitivamente di trovarla.E c’è chi al lavoro non ha mai smesso di andarci: nella trincea degli ospedali sovraffollati e malsani, nella calca dei supermercati presi al sacco dalla folla spaventata, nelle fabbriche servite da treni e bus stipati all’inverosimile. E si chiede ogni tanto cosa abbiano mai da lamentarsi tutti gli altri.
C’è chi fa l’insegnante con passione, ma ha una patologia cardiaca, una immunodeficienza, un coniuge che cerca di guarire dal cancro o un genitore molto anziano di cui prendersi cura dopo il lavoro. E sente che entrare in un’aula piena di ragazzi rappresenta davvero un rischio inaccettabile. C’è chi si ritrova a insegnare a scrivere a suo figlio davanti a un tablet che funziona a scatti, e la ritiene una completa aberrazione. Chi ha perso il sonno perché il suo, di figlio, avrebbe dovuto laurearsi nei prossimi mesi, e ora non sa bene quali pesci prendere. E chi pensa con invidia agli uni e agli altri, perché è genitore di un bambino con bisogni speciali, che adesso saranno completamente disattesi – ancora più del solito – e chissà quale voragine cupa lasceranno. C’è chi i figli non li ha avuti, oppure li ha cresciuti da trent’anni, e quali possano essere le difficoltà odierne dei genitori non riesce nemmeno a immaginarlo. Così non può sottrarsi alla tentazione di minimizzare, di dirsi che a resistere ancora per qualche settimana, in fondo “cosa ci vorrà”.
C’è chi ha rimandato un matrimonio, chi non vede figli e nipoti da un anno, chi ha rinunciato a un progetto, a un trasloco, a un sogno qualsiasi. Chi sente mordere più forte una depressione che sperava di essere riuscito a tenere finalmente a bada. Chi non riesce a curarsi come dovrebbe da un cancro, da una malattia neurologica, da una disabilità o da una cardiopatia. E c’è chi annaspa intubato in un letto di rianimazione, chi ha perso un genitore, un nonno, un compagno, senza poterlo neanche salutare un’ultima volta. E trova che nessun’altra ragione sia sufficientemente importante per dolersi e recriminare.
Il dolore degli altri è dolore a metà, se tu per primo sei alle prese col dolore. E forse non è davvero colpa di nessuno. Forse è del tutto inevitabile, del tutto normale, che nella difficoltà sempre crescente si finisca col concentrarsi su se stessi. Con il tentare di sopravvivere col minor danno possibile, di mettere i propri figli in salvo sulla prima scialuppa disponibile. Forse è normale rivendicare il proprio strazio perché è l’unico che si conosce davvero, l’unico con il quale giorno e notte ci si trova fare i conti. Non è facile obbligarsi ad ascoltare, a compatire, a consolare chi sente di stare “peggio di te”, se tu per primo non stai bene, e avresti un disperato bisogno di qualcuno che ti ascolti, ti compatisca e ti consoli. Non è facile dare agli altri qualcosa, se quel qualcosa, da un tempo non esattamente breve, manca anche a te stesso. Si può solo decidere di provare il più possibile a tenersi per sé la tristezza, la rabbia, la paura. Consapevoli che gli altri, nessuno escluso, stanno già portando il loro fardello. Si può solo provare a resistere da soli, e sperare di riuscire a farlo abbastanza a lungo. L’empatia non è un lusso per i tempi bui. E il dolore degli altri, ora più che mai, è dolore a metà.
Signora endometriosi,
scrivo a te, anche se mi sento un po’ fuori di testa, per dire soprattutto delle cose a me stessa, e condividerle con altre donne alle prese con lo stesso percorso, probabilmente con scarpe ben più pesanti di quelle che sto calzando io e lungo curve assai più tortuose delle mie. Che nonostante tutto sono stata estremamente fortunata.
Sei stata per anni una conoscenza superficiale e indiretta, una voce tra le tante del mio bagaglio di cultura generale. Minacciosa, ma fino a un certo punto. Sembravi, in qualche modo, una di quelle cose che capitano sempre agli altri, o per meglio dire “alle altre”. E poi, tutto a un tratto, sei entrata nella mia vita senza chiedere il permesso.
Sei riuscita nell’impresa non semplice di cogliermi di sorpresa, mia imprevedibile endometriosi. In pochi riescono a fregare il mio sesto senso, l’istinto innato che spesso mi fa leggere tra le righe e mi fa cogliere segnali che altri pensano di aver censurato, o che nemmeno sanno di aver inviato. Sei arrivata quando proprio non ti avrei aspettato, quando ormai avevo abbassato la guardia, a un’età in una fase della mia vita che consideravo non più così a rischio, tutto sommato.
Sei comparsa senza fare troppo rumore, relativamente in sordina. E questo ti ha permesso di farti largo dentro di me, senza che io me ne accorgessi se non quando ti eri ormai presa definitivamente un pezzo del mio corpo, spostandone altri un centimetro alla volta e obliterando quello spazio al centro del mio centro che un tempo aveva ospitato i miei figli.
Ma ho fatto tutto da sola, a pensarci bene. Ho colpevolmente disimparato, nel tempo, a prestare attenzione a me stessa da non rendermi conto che nelle mie viscere qualcosa non andava. L’attitudine alla “sopportazione”, allo stringere i denti, a preoccuparmi d’altro, mi è forse divenuta così congeniale da non riuscire più a capire, o da arrivare a farlo con clamoroso ritardo, che dopo tutto non stavo poi così bene. E questo, silenziosa e subdola endometriosi, è un grande insegnamento, di cui in qualche modo ti sono grata e che dovrò cercare di tenere a mente a tutti i costi.
Alla fine, ti ho vissuta come un tradimento. Come una trappola tesami dal mio stesso corpo, che finora era stato il più solido e affidabile tra i compagni. Detesto avere la sensazione di perdere il controllo, ed è esattamente così che tu, all’improvviso, mi hai fatto sentire: non più padrona delle mie cellule, dei miei tessuti, dei miei organi interni. Non più proprietaria del mio stesso sangue, che a un tratto ha invertito il suo corso, sbagliando strada e aprendosene altre con dolo e dolore. Non mi hai lasciato scelta: mi sono sentita, a causa tua, alla mercé di forze e processi ingovernabili, del tutto indipendenti dalla mia volontà.
Mi hai imposto, come a tutte noi che ti incrociamo nostro malgrado lungo il sentiero, un dazio di dolore, di paura e di lacrime. Mi hai tolto un ovaio. Qualcosa che pensavo non mi importasse più, dato che in un certo senso “non mi serviva più”, e che invece, come spesso accade in un tardivo exploit di consapevolezza, mi è apparso prezioso e benedetto proprio nel momento in cui ho dovuto rinunciarvi. Ma io sono stata molto più fortunata di tante altre, di tante sorelle da cui esigi un prezzo esorbitante e a cui imponi un sacrificio che io, privilegiata, non so nemmeno immaginare.
Di un paio di cose, alla fine, sarò grata per sempre, anche se non so ancora bene a chi o a cosa.
Intanto, non sarai mai una minaccia per la mia vita. E questo, soprattutto in quest’anno di lutto e dolore (che segue un anno che è stato di lutto e dolore nel mio universo personale e familiare) mi sembra una ragione più che sufficiente per ringraziare in eterno.
E poi, sei arrivata troppo tardi per rischiare di mandare a monte, o anche solo complicare, i miei progetti di maternità. So bene che moltissime donne non hanno di certo questa fortuna, e sento cristallino e fortissimo un senso di sollievo e di immensa riconoscenza per questo. Per i miei figli, per averli incontrati senza fatica e senza dolore.
Indesiderabile signora endometriosi,
anche se spero di essermi liberata di te, forse ci toccherà farci compagnia più o meno a lungo e più o meno in silenzio. In ogni caso, non temere, da oggi cambia tutto: sarò più vigile, più consapevole e più attenta.
PS. L’endometriosi è una malattia molto diffusa ma spesso misconosciuta, sottovalutata o diagnosticata tardivamente. È una patologia “benigna” (nel senso che non degenera in lesioni maligne), ma spesso estremamente dolorosa, tanto da risultare addirittura invalidante. In molti casi, se non curata in modo tempestivo ed efficace, può determinare infertilità o comunque difficoltà nel concepimento. Le sue cause sono ancora dubbie, quel che è certo è che determina la presenza di cisti o focolai di tessuto endometriale (lo strato più interno dell’utero, quello che si sfalda ogni mese durante le mestruazioni) in zone dove non dovrebbe esserci: le ovaie, le tube, le pareti addominali, l’intestino o addirittura la vescica, i polmoni etc. Spesso causa mestruazioni irregolari, estremamente dolorose, emorragiche, oppure forti dolori in fase ovulatoria, dolori durante il rapporto sessuale o dolori pelvici e addominali cronici. Ma può comportare anche altri fastidi come stitichezza o perdita di sangue attraverso le urine. La terapia farmacologica è su base ormonale, quando non è efficace non resta che la chirurgia. Io sono stata operata per una cisti endometriosica molto grande, che ha reso necessaria anche l’asportazione dell’ovaio destro. Non ho mai sofferto durante le mestruazioni, ma ho trascurato per anni forti dolori durante l’ovulazione, nonché un senso di tensione e peso all’addome, dove a volte mi capitava di poter tastare questa grossa “formazione”.
È molto importante, di fronte a certi sintomi, ottenere al più presto una diagnosi certa: non è fisiologico, per esempio, avere mestruazioni estremamente dolorose o emorragiche, e se vi succede non è perché voi siate “deboli” o “lamentose”. Avete diritto a indagini accurate, una diagnosi tempestiva (anche tramite risonanza magnetica o Tac) e cure efficaci. Cercate un ginecologo o una struttura che abbiano comprovata esperienza in materia di endometriosi e adenomiosi, in modo da essere seguite nella maniera più adeguata. E ricordate sempre che non siete sole!
Odio fare il genitore quando i miei figli riescono a dire esattamente la frase che fa più male. Quella che ti spiazza, che ti lascia in disarmo. Che ti fa vacillare la terra sotto i piedi. E tu sai che dovresti darle poco peso, scrollare le spalle e relativizzare, eppure dentro di te si forma una crepa sottile che ogni volta si allarga un po’ di più. E a te non resta che provare a richiuderla con l’oro liquido del tuo amore incondizionato e archetipico, come in un esercizio quotidiano di kintsugi che non si esaurisce mai.
Odio fare il genitore quando i miei figli mi sembrano “infelici” e io mi convinco di essere la causa principale della loro infelicità.
Odio fare il genitore quando sento di aver dato tutto quello che avevo, eppure non è stato comunque sufficiente. Quando ho fatto davvero il meglio del mio meglio, e magari mi sono inventata pure qualcosa in più. Eppure i miei figli non sono contenti, non sono tranquilli, non sono soddisfatti. Quando ho preparato con le mie mani un pasto succulento che resta a freddarsi triste in un piatto. Quando ho costruito un gioco che viene subito dimenticato, distrutto, ignorato. Quando ho dedicato tempo, energie, gioia e amore, ma questo non è abbastanza per evitare i malumori, i litigi, la rabbia reciproca. E io mi lascio abbattere, mettere in discussione e intristire per questo.
Odio fare il genitore quando mi sorprendo delusa o dispiaciuta perché le cose non vanno come io vorrei. Perché i miei figli non rispondono ad aspettative che neanche dovrei coltivare, quando non riesco ad accogliere come dovrei anche le loro fragilità, i loro limiti, i loro inevitabili e innegabili difetti.
Odio fare il genitore quando non so fare il genitore. Quando sento che quello che sto facendo non funziona, ma mi pare di non avere altre opzioni, di non sapere come aggiustare il tiro. E lo odio ancora di più quando invece so perfettamente cosa dovrei fare, eppure per qualche ragione non ne sono capace. Quando so che dovrei essere (ancora un po’) più paziente ed empatica, (ancora un po’) più saggia e illuminata. E invece riesco solo a minacciare e punire e chiudermi nella mia frustrazione.
Odio fare il genitore quando i miei figli mi sembrano irriconoscenti e insensibili. Quando mi vedono affranta, esausta, avvilita e, pur sapendo benissimo che io mi sento affranta, esausta e avvilita, si guardano tra loro ridacchiando. E io mi odio perché lascio che il loro naturale infantilismo mi ferisca, che mi faccia sentire piccola e inutile, che mi metta in crisi ancora di più.
Odio fare il genitore quando mi ritrovo a dover rispondere a dei messaggi WhatsApp con le parole senza vocali e le k al posto del “ch”. E che cominciano con “Ciao mamme!”. Quando, per il bene dei miei figli, devo passare del tempo con persone con cui non mi sento del tutto a mio agio, o in luoghi in cui non metterei mai piedi spontaneamente. Quando scegliere tra me e loro comporta necessariamente una rinuncia.
Odio fare il genitore quando mi tocca spiegare ai miei figli che “non importa quello che fanno gli altri, a casa nostra funziona così”. E devo combattere contro le cattive abitudini altrui, contro la superficialità altrui, contro la pigrizia altrui e l’altrui mancanza di senso civico. Odio fare il genitore quando penso che se vivessi altrove, se fossi nata lontano e se lontano stessero crescendo i miei figli, sarebbe tutto più semplice, meno faticoso, meno logorante.
Odio fare il genitore quando lascio che una parola altrui, un giudizio più o meno esplicito, un confronto inopportuno mi mettano in crisi e mi facciano sentire inadeguata.
Odio fare il genitore quando i miei figli si ammalano e io ho paura per loro. Quando un figlio non mio si ammala di un male che non si può guarire, e io mi sento mancare il fiato al pensiero che un giorno potrebbe capitare ai miei. Quando penso che potrei stare male io e lasciarli troppo presto.
Odio fare il genitore quando non ho il tempo per farlo come vorrei e saprei.
Fare il genitore non è banalmente “una cosa meravigliosa”, il “senso di tutto”, la gioia più grande. È anche fatica, solitudine, rabbia. È una missione che non finisce mai. Un viaggio in cui si naviga sempre a vista, in un mare che a volte si fa oscuro e tempestoso. Fare il genitore è una limitazione autoinflitta e permanente della propria libertà, una responsabilità che va ben oltre le notti insonni, le ragadi al seno e i pannolini pieni di merda.
È anche un’avventura straordinaria, naturalmente. L’esperienza umana forse più intensa che sia dato di vivere e l’ancora di salvezza più solida quando senti che stai affogando (e magari avresti la tentazione di lasciarti andare). Ma non c’è vergogna per chi ammette che a volte è estenuante, difficile, doloroso. Come la vita, che è fatta di arcobaleni luminosi ma anche di pozzanghere di melma. Che è zucchero e fiele, goduria e tormento. Che è passione, in ogni senso che a questa parola sia possibile dare.
Il mio senso di colpa materno è il mio effettivo primogenito, nel senso che ha visto la luce prima ancora che il mio primo figlio emettesse il suo vagito inaugurale. Evidentemente, si annidava in qualche piega della mia coscienza ipertrofica da molto prima che diventassi madre, pronto a tendermi i suoi agguati già durante la gravidanza. Mi stancavo o lavoravo più del solito? Forse stavo nuocendo al mio bambino. Mi concedevo una dose generosa di comfort food non esattamente salutare? Ero davvero una madre degenere. Mi facevo prendere dai dubbi sulla mia imminente maternità? Che pessimo destino attendeva mio figlio! E giù di rimorsi e senso di colpa.
Da allora, anche a causa del clima giudicante e ipocritamente perfezionista che circonda le neomamme, non credo esista qualcosa per cui, rispetto al mio ruolo di genitore, non mi sia sentita in colpa almeno una volta: per aver vestito troppo poco i miei figli e per averli vestiti troppo; per aver dato loro troppo da mangiare o, viceversa, troppo poco; per essere stata troppo indulgente o troppo severa, troppo distratta o eccessivamente presente. Per aver parlato o taciuto, per aver lavorato troppo o troppo poco, per certe cose che ho pensato e altre che invece non mi sono proprio venute in mente. A volte – e davvero mi pare emblematico – mi capita di sentirmi in colpa per il troppo sentirmi in colpa.
Nel tempo (e con un significativo ma benedetto investimento in psicoterapia), ho capito che il modo migliore per esorcizzare il mio patologico senso di colpa materno sarebbe stato probabilmente quello di farci la pace. Di accettarlo come una caratteristica della mia personalità, scomoda e ingombrante ma anche potenzialmente molto utile. Un po’ come la pelle grassa, che mi ha rotto le scatole al liceo ma mi ha permesso di arrivare alla soglia dei 40 anni senza nemmeno una ruga d’espressione. Mi si conceda di nuovo il gioco di parole: non è colpa mia se tendo a sentirmi in colpa, e questo non fa di me una madre fragile, condizionata o negativa. Non mi rende un pessimo esempio per i bambini che la vita mi ha affidato.
Oggi, da potterhead attempata quale sono, provo a guardare al mio senso di colpa materno come a una specie di mistico mantello dell’invisibilità, nel senso che mi rende trasparente ai miei stessi occhi e mi impedisce di entrare in contatto coi miei veri bisogni, con i miei desideri profondi, con la mia vera natura. Il che in effetti non è un bene, ma a volte può servire per mettersi totalmente nei panni e a disposizione dell’altro (e questo vale non solo per i miei figli). Se non avessi questa cronica tendenza a giudicarmi con severità e a sentirmi in colpa, forse sarei meno empatica e meno concentrata sul cercare di migliorarmi con costanza come madre, ma più in generale come donna e come cittadina. Forse verrebbe meno una potentissima spinta a diventare ogni giorno la migliore versione possibile di me.
La sfida rimane quella di non farsi travolgere, di saltare fuori dal mantello quando arriva il momento, sacrosanto e sanissimo, di pensare solo a me stessa. Di concedermi il diritto inalienabile di sbagliare più o meno scientemente, di essere una madre (e una persona) imperfetta, umana e fallibile. Di ricordare che il senso di colpa, appunto, va bene finché si limita a essere uno stimolo a guardare in faccia la realtà e a migliorarsi di continuo, ma è controproducente quando paralizza e condanna all’insoddisfazione perpetua. La sfida, in definitiva, rimane quella di trasformarlo in uno strumento al proprio servizio, nella ricerca costante dell’autenticità che permette di essere liberi e felici.