Quando ho visto mio figlio per la prima volta, l’ho trovato indubbiamente molto tenero. Era buffo, era piccolo, era dolce. Soprattutto, era mio. Era tutto questo e molto altro ancora, ma non era poi così bello. Era gonfio, i tratti alterati dalla lunga permanenza nel liquido amniotico e dalla fatica del travaglio. La sua pelle era screpolata, e arrossata dall’emoglobina fetale ancora in circolo. Aveva le dita rugose, gli occhi sporgenti e privi di ciglia, e il suo corpo era cosparso di peli.
Davide
Sai, Davide, Flavia ti vuole molto bene, perché è la tua sorellina piccola.
No!
Uh, guarda: ti ha fatto una carezza! Non è che per caso hai voglia di darle un bacino?
Bleah!
Povera Flavia, eh, Davide? È talmente piccola che non sa ancora camminare né mangiare. E non può nemmeno andare all’asilo a giocare con gli amici, pensa un po’!
Faccia perplessa. Molto perplessa.
Io i cani li adoro. Lo sapete. E se non lo sapete, ve lo dico adesso. Mi piacciono proprio tanto, i cani. Più di alcune delle persone che conosco, addirittura.
Inoltre, trovo che togliersi le scarpe quando si entra in casa sia un’abitudine molto intelligente. Più sensato, in termini di igiene, che andare in giro con le scarpe e poi mettersi a disinfettare dappertutto.
Sorridere sempre
Perché anche quando sei preoccupatissima per la salute dell’ultimo nato, il primogenito merita una mamma felice.
Individuare le priorità
Come quando, ad esempio, devi scegliere se dormire o mangiare nel meraviglioso (e rarissimo) quarto d’ora in cui i tuoi figli dormono contemporaneamente.
Allattare pericolosamente
In piedi, ad esempio. O in movimento. O in posizioni improbabili e talvolta scomodissime. Solo perché nel frattempo stai giocando col primogenito, oppure lo stai addormentando, o lo stai intrattenendo in qualche modo.
Amare in clandestinità
Perché quel tuo minuscolo figlio merita coccole e strappa tenerezze, ma è meglio che il fratellone non ci faccia troppo caso.
Selezionare gli affetti
Solo chi ti ama davvero ti resta accanto anche se sforni due figli in due anni.
Badare all’essenziale
In fatto di pulizie domestiche, make up personale, preparazione dei pasti, etc.
Evitare preoccupazioni inutili
Dall’acne neonatale alla crosta lattea ai pianti pomeridiani. Non solo sai per esperienza che prima o poi passerà tutto, ma ti mancano sia il tempo che le energie per occuparti di simili facezie.
Sollevare pesi considerevoli
Questa è banale: ogni madre duplice sa che se ha in braccio il neonato, il primo figlio vorrà probabilmente saltarle in collo a sua volta. Anche se pesa 15 chili.
Pretendere meno da te stessa
Due figli piccoli e una mamma sola. È una questione aritmetica. La perfezione è un proposito da abbandonare definitivamente. E allora pazienza se si salta un bagnetto, si abusa un po’ della tv o si mangia pizza qualche volta di troppo.
Resistere strenuamente
Alla fatica, al sonno, all’incertezza, e a volte anche alla solitudine e al dolore.
Fidarsi del papà, ma sul serio
Perché anche la madre più accentratrice e ansiosa non potrà fare a meno del gioco di squadra.
Tollerare il pianto
Dinanzi a una richiesta di aiuto doppia e simultanea, da qualche parte devi pure incominciare. E qualcuno, va da sé, sarà costretto ad attendere un po’. Qualche volta piangendo, purtroppo.
Sviluppare dei superpoteri
Tipo fare qualsiasi con una mano sola, dormire con gli occhi aperti, farsi una doccia in 37 secondi. Ma queste, a ben guardare, sono doti che ogni mamma possiede, anche se di figlio ne ha uno soltanto.
“Zzzzzzzzz. Ronf ronf…”
“Che dici? Provo a metterla un po’ sul letto? Dorme profondissimamente…”
(“Zzzzzzzronfzzzz”)
“Buona idea. Supina, mi raccomando. E magari lasciala un po’ inclinata, visto che è ancora piena di muchi…”
“Ecco qui, amore, piano piano… Così dovresti stare comoda, e io resto comunque accanto a te.”
“Zz…Gg…Nghè..Uà Ueeeeee Nguèèèèèèèèèè”
“Ok, ti tiro su, calmati!”
“Ue…Zzzzzzzzronfzzzzzzronfzzzz”
“Mammmmma!”
“Sì, amore mio caro, ti prendo tra un momento. Ho già in braccio tua sorella, non è che potesti aspettare un minuto?”
“No!” (Conosce tre parole, ma sa perfettamente come usarle. La terza è “biscotto“).
“Miao…”
“Artù, bello mio… Vieni qui che ti accarezzo”
“Maaaoooo”
“Cosa? Vuoi salirmi in collo? Guarda, non so se è una buona idea, non c’è più spaz….”
“Meeeeeeeeeooooooowwww”
“Ok, mi sa che tra il mio sterno, la testa di Flavia e la mano di Davide è rimasto un po’ di spazio…”
Per i miei figli l’alto contatto non è un’esigenza. È una missione di vita.
Fortuna che esistono le fasce portabebè…
Non ho la presunzione di aver regalato al mondo un capolavoro sempiterno. Ma dopo quasi due anni di mugugni, brontolii e grugniti della mia creatura penso di capire come si sia sentito Michelangelo al cospetto dell’impenetrabile mutismo del suo Mosè. Certo non arriverei mai a colpire Davide sperando di convincerlo a proferire verbo, ma confesso che ogni tanto l’incomunicabilità genera livelli di frustrazione piuttosto significativi.
«Uhmpf! Uhmpf! NNNNNNNN! Aghhh!»
«No-no-no-no-nnno-nnno!»
«Mh mh mh! Ahhh! Ooooohhhhhh… Ghenenené»
«Glipglipclinktictictic. Gnamgnamgnamgnam»
Ora, vada pure per il gnamgnam, ma provate voi, con tutto l’istinto materno possibile e l’empatia in dotazione di una madre, a capire in ogni circostanza cosa voglia (o non voglia) un simil-duenne che non spiccica parola. E che per giunta ha mostrato fin dal momento della sua nascita di essere particolarmente volitivo, irremovibile e privo di qualunque inclinazione alla pazienza.
Certe volte, purtroppo, la (sua) reazione rabbiosa è inevitabile. E non perché noi adulti non vogliamo accontentarlo, ma perché è praticamente impossibile capire cosa stia chiedendo nel suo linguaggio così… peculiare.
Tra l’altro, diciamolo, quanto sarebbe più facile se gli si potesse chiedere finalmente “Cosa ti fa male?” “Perché piangi?” “Come mai ti sei svegliato (di nuovo)?” “Non hai fame?”. Che poi, oh, uno può benissimo domandarglielo – e io non faccio altro, in effetti. Il problema è che la gamma delle risposte possibili varia dal discorso-fiume in davidese al monosillabo gutturale. Passando per il silenzio più ostinato con cui io (logorroica e precocissima parlatrice) mi sia mai dovuta confrontare. Ormai mi accontenterei volentieri di un sì, oltre che del solito no, che già potrebbe ampliare di parecchio le capacità di comunicazione bilaterale.
E dire che lui, il novello Mosè michelangiolesco (che siano i nomi veterotestamentari, il problema?) non era mai sembrato un taciturno, tanto che i soliti pronostici “infallibili” lo davano per un prestissimo parlante. A parte i polmoni da Pavarotti, infatti, ha iniziato a lallare prima della media e “chiacchiera” senza posa da quando aveva pochi mesi. Peccato però che si capisca da solo.
Lungi da me il voler forzare i suoi tempi. E giuro su Google Traduttore di non essere preda di paturnie e apprensioni sul “ritardo linguistico” di BigD. Però, figlio mio, almeno acqua, pappa, cacca e pipì potremmo cominciare a tirarli fuori?
Grazie, eh.
Non so se sono ancora pronta a quella che di fatto sarà una doppia separazione.
Dal mio primo figlio, che non ho mai lasciato così a lungo, e che forse passerà il tempo a chiedersi dove sia finita sua madre, oppure scoprirà che in fondo si sta benissimo anche senza di lei (e non so, in tutta franchezza, quale delle due eventualità mi faccia più paura…). E dal mio secondogenito, dal quale dovrò separarmi nel senso più fisico del termine, recidere quel legame di sangue, pelle e fluidi che ci rende una persona sola con due distinte identità.
I miei figli, che negli ultimi mesi sono stati, forse paradossalmente, quelli che più hanno mitigato una solitudine – in parte subita, in parte capitata, in parte autoimposta – che altrimenti avrebbe finito col prostrarmi.
Li ritroverò entrambi. Fuori dal mio corpo e, come è giusto che sia, appena più indipendenti dalla donna che li ha generati, e che ogni giorno prova a partorirli ancora, in un travaglio faticoso ed esaltante che, probabilmente, non si concluderà mai.
Niente, però, sarà più come prima, nel bene e nel male. E saperlo in anticipo, senza ombra di incertezza, dà una vertigine che a tratti spezza il respiro.
Gli altri bambini hanno orsacchiotti di pelo e bambole di pezza. Copertine di lana soffice e strisce di raso liscio, bavaglini “speciali” e morbidi carillon. L’oggetto transizionale di mio figlio, il primo che abbia scelto in quasi due anni di vita, è un modellino in scala 1:24 di un’Alfa Romeo rossa fiammante a due posti. Di metallo e plastica dura, con gli sportelli apribili.
Il giocattolo ideale da trascinarsi nel letto per la nanna (oltre che al nido, dai nonni, a passeggio, al supermercato, sul fasciatoio, a tavola e nell’acqua del bagnetto).
Quello che durante la fase dell’addormentamento viene passato all’infinito di mano in mano e ogni volta rischia di sbatterti delicatamente sul cranio. O sulla mandibola, o sul setto nasale.
Quello che nella migliore delle ipotesi ti finisce conficcato in un rene quando hai finalmente preso sonno e speri di goderti le poche ore di riposo che ti separano dal prossimo pit stop-pipì imposto dal tuo utero che pesa 5 chili, dall’inevitabile risveglio del minuscolo collaudatore di Alfette, dai miagolii del gatto o semplicemente dalla sveglia mattutina.
Quello che quando, inesorabilmente, finisce per terra nel cuore della notte, produce un tonfo di proporzioni tsunamiche, in grado di far svegliare tra le bestemmie l’intero condominio. Roba che al confronto, i crash test dell’ACI sono uno scherzetto da ragazzi.
E dire che ho passato mesi a cercare di propinare a mio figlio un’intera popolazione di doudou in cotone organico, dai colori neutri e dalle forme rilassanti, studiati per “conciliare il riposo e rassicurare il bambino nel delicato momento della nanna”.
Abbiamo avuto il coniglio ecru e l’alce beige, l’orsacchiotto celestino e la giraffa pezzata. Finanche una carota che fa squeak, oltre a un intero campionario di prodotti agricoli di stoffa, roba da fare impallidire Luca Sardella e pure Janira.
Ma niente. Jean Todt, qua, vuole solo l’Alfa Romeo di metallo rosso.
Che dire? Almeno, non ha scelto una Fiat Duna.
In casa Mamma Green la tv si guarda senza eccessivi pregiudizi, anche se con una certa moderazione. A me e al papà di BigD piacciono moltissimo i film, le serie tv e lo sport, di cui siamo spettatori assidui per quanto non maniacali. Per una questione se non altro di coerenza, dunque, ci è parso fuori luogo porre veti categorici all’indirizzo di nostro figlio, a cui da qualche mese viene concesso, senza esagerare, un po’ di svago quotidiano davanti allo schermo. D’altra parte, crediamo che nell’ambito di una varietà di proposte di intrattenimento abbastanza ampia (dai giochi ai colori, dalle passeggiate al parco alla bicicletta, senza ovviamente trascurare il nido mattutino) un po’ di cartoni animati non possano nuocere poi così tanto.
Fin qui niente di diverso, penso, da quello che accade nella maggioranza delle abitazioni italiane.
La stranezza – perché quando si tratta di mio figlio difficilmente le cose assumono una connotazione “media” o, come si suol dire un po’ impropriamente, normale – è che Davide mostra verso i programmi televisivi un senso critico anomalo e insolitamente sviluppato (a tratti, diciamolo pure, insopportabile).
Tra digitale terrestre e Sky ha ha disposizione almeno una decina di canali tematici tra cui scegliere, ma di norma siamo fortunati se gliene va a genio uno. E per non più di pochi minuti di seguito, per giunta.
La scena tipica è questa:
“Davide, ti va se guardiamo un po’ di tv?”
Entusiasmo e felicità. Saltelli ed esclamazioni (disarticolate) di gioia.
Lui prende i telecomandi e li porta al genitore di turno.
Cominciamo con la tv a pagamento, dal canale 603. Lui osserva per non oltre 40 secondi, dopodiché inizia a scuotere il capo con severità e a riportare le mani dell’adulto sul telecomando, facendo chiaramente capire che la trasmissione non è di suo gradimento e che bisogna assolutamente e con estrema urgenza cambiare canale.
La scena si ripete invariata per l’intera piattaforma per bambini di Sky, di solito con un crescendo di insofferenza da parte del piccolo spettatore, che finisce puntualmente per spendere l’unica parola che conosce (“NO!”) per esprimere con maggiore chiarezza il proprio disappunto. Oppure per appropriarsi del telecomando nel tentativo di cercare qualcosa che sia di suo reale gradimento.
A quel punto, il malcapitato genitore passa, con le speranze già ridotte al lumicino (e maledicendo il momento in cui ha avuto l’idea brillante di proporre la televisione), ad esplorare il palinsesto del digitale terrestre, augurandosi di avere maggiore fortuna. Altri 4 o 5 canali, che normalmente vengono bocciati con sdegno e senza appello dal critico televisivo in erba. Abbiamo in casa il novello Paolo Mereghetti e nessuno ci aveva avvertito.
La verità è che l’unica cosa che piace davvero a mio figlio è un cartone animato mezzo canadese pieno di cagnolini supereroi, di cui ovviamente conosciamo a memoria tutti gli episodi. Se non lo mandano in onda – e a differenza di ben note serie di argomento suino, l’eventualità è abbastanza probabile – l’insuccesso, e la frustrazione, sono assicurati.
Inutile che stia qui a dirvi che questi benedetti cartoni animati non si trovano su Youtube, né in DVD né su qualunque altro circuito esistente.
Giuro che certi giorni mi manca tanto Mollica. Il “critico” cicciottello del TG1 che recensisce film, dischi e quant’altro. E che mai, in vita mia, ho sentito stroncare un’opera qualsiasi, fosse anche il più grande successo dei Jalisse in lingua spagnola. Giuro che se continua così faccio sparire il televisore. E pazienza per True Detective e Game of Thrones.
Il ventre femminile è un simbolo molto potente. Gli umani, anche e soprattutto quelli di genere maschile, lo sanno fin dalla preistoria. Con le sue forme morbide e arrotondate evoca forza e fecondità, protezione e nutrimento. Abbondanza, gioventù e salute.
E il fatto che a Pasqua si regalino dolci di cioccolato a forma di uovo allude in fondo allo stesso significato benaugurante. Prosperità e gioia.
Sarà per questo, o per qualche altro istinto ancestrale e potentissimo, che da quando sono incinta il mio grembo in espansione è diventato per mio figlio un oggetto totemico, transizionale. La sua sostanza stupefacente buona per rilassarsi, consolarsi, riposarsi. All’improvviso, senza che nessuno glielo abbia fatto notare, Davide cerca conforto e rassicurazione accarezzando il mio pancione ormai rotondo, sfiorando il mio ombelico, appoggiandosi sul mio ventre e abbracciandolo.
Il mio corpo gravido è diventato per lui un baluardo invincibile, capace di scalzare le paure più ostinate, calmare il pianto più disperato e conciliare il sonno, di far sorridere al risveglio e rilassare dopo le corse più sfrenate.
Mi chiedo spesso se mio figlio riesca in qualche modo ad avvertire la vita che palpita di nuovo sotto la mia pelle tesa, ricordando inconsciamente la sua esistenza prenatale, così importante e, tutto sommato, così recente. Me lo chiedo soprattutto quando si appoggia con la testa sul mio ventre, spingendo leggermente con quella stessa fronte che, incastrandosi nel canale del parto il giorno della sua nascita, alla fine mi costrinse al cesareo. Come se volesse ritornare per un po’ a quel mondo acquatico così ospitale, oppure replicare il suo arrivo in questo mondo, per avere una seconda opportunità di indovinare la strada giusta.