Non sei un ragazzo, ma non sei più un bambino piccolo. Sei nell’età in cui tu, figlio, insegni già a me, madre, un sacco di cose nuove ogni giorno, eppure ti rivolgi ancora alla sottoscritta quando c’è qualcosa che vuoi conoscere o comprendere meglio. Quando il senso di una parola ti sfugge, quando una paura ti attanaglia, quando la vita ti mette di fronte a una novità che ti sembra troppo difficile da affrontare. Sei nell’età in cui mi passi i fumetti che hai appena finito e ti sta a cuore che io li legga davvero, in modo da poterti riferire la mia opinione articolata e sincera. Sei nell’età in cui mi reciti ad alta voce brani di libri che ti hanno colpito o ti hanno fatto ridere, perché ti rende orgoglioso e felice suscitare anche in me lo stesso interesse, la medesima risata. Sei nell’età in cui mi chiedi quale sia il capitolo di Star Wars che ho preferito finora, e se la mia risposta non combacia con la tua, indugi un momento appena per chiederti se non sia il caso, magari, di riconsiderare la tua scelta. Quell’età in cui insisti in ogni modo possibile perché io legga al più presto la tua ricerca scolastica sugli australopitechi, in cui proponi destinazioni di viaggio che possano appassionarci entrambi, in cui ti fa piacere prestarmi la tua nuova bicicletta, dopo aver cambiato l’altezza della sella apposta per me.
Davide
La prima volta che ti ho visto, mancavano pochi minuti alle sei del mattino. Ero esausta, sveglia da un giorno e mezzo, reduce da una notte di doglie, solo che in quel momento non ne ero cosciente. L’adrenalina scorreva nell’alveo del mio sistema circolatorio come un torrente a primavera, la testa mi girava appena, il cuore batteva più forte del solito. Avevo mezzo corpo paralizzato e insensibile, e un ago inserito dentro una vena, nell’incavo del gomito destro. Un piccolo squarcio orizzontale separava in due la mia pancia, un paio di persone con camice e cuffia svettavano su di me mentre trafficavano per richiuderlo. Qualcuno mi aveva appena comunicato, con una voce che mi sembrò arrivare da distanze siderali, che la placenta era stata estratta integra e senza complicazioni, e che il cordone era stato tagliato. Non so bene come siano riusciti a ricucirmi, dal momento che tremavo furiosamente di freddo, un freddo che non avevo mai provato prima, sintetico come la luce piatta che ci pioveva addosso. Avevano attivato un getto di aria calda per cercare di riscaldarmi, ricordo di essermi chiesta se fuori stesse ancora piovendo. Una donna sconosciuta balbettò qualche convenevole mentre ti avvicinava al mio sguardo miope, abbastanza perché riuscissi a mettere a fuoco la tua smorfia contratta nel pianto. Era un pianto stentoreo, assordante, che lì per lì mi parve rabbioso e che invece, credo adesso, era soltanto disperato. Per l’abbandono che forse temevi di aver subito, per la paura, per la fame, per la solitudine. E per il freddo, che in quel momento ci assediava entrambi, scoperti e spezzati da una separazione chirurgica e definitiva. Ci sfiorammo per un attimo o due, che mi bastarono per passare in rassegna i tuoi lineamenti congestionati, tumefatti dalla lunga permanenza nel mio utero allagato. Che mi bastarono per dire a me stessa che mio figlio non mi somigliava per niente.
Eravamo soli, io e te. Di quella solitudine totale e inconsolabile che ti coglie quando sei circondato dalla folla. Due individui improvvisamente distinti, che fino a tre minuti prima avevano condiviso l’ossigeno, gli ormoni, lo zucchero e il sangue. Avevo perso un pezzo di me, non solo in senso metaforico. Avevo subito la più dolce delle mutilazioni, anche se allora non ne ero cosciente. Avevo freddo, vedevo male, non sentivo nulla se non quel pianto furioso che riempiva l’aria, e che fece dire alla levatrice anziana che in quarant’anni non aveva mai udito “un pianto così”. Penso di aver chiesto se tutto andasse bene, o forse l’ho soltanto immaginato. Non mi hanno risposto, forse il tuo ululato aveva assordato tutti quanti. A un certo punto vidi un mio piede levitare a mezz’aria, qualcuno mi aveva sollevato una gamba e la stava spostando verso destra. Mi parve di guardarmi dall’esterno, non avrei mai provato nulla di tanto straniante, dopo quel giorno.
Ti avrei rivisto solo dopo un’ora o due, vestito coi panni che avevo scelto per te. Non mi sembravi piccolissimo, dopotutto. Non mi sei mai sembrato piccolo, forse perché ero io a sentirmi improvvisamente microscopica, perduta in un mondo improvvisamente immenso, isolata in un vuoto improvvisamente incolmabile.
Se qualcuno mi avesse detto che ci saremmo amati come ci amiamo adesso, forse non gli avrei creduto. Devono avermelo detto, a pensarci bene. E di certo io non ci ho creduto. Se qualcuno mi avesse detto che in te avrei riconosciuto me stessa per filo e per segno, avrei fatto senz’altro un commento sarcastico, di quelli che non si addicono a una puerpera e che invece a me venivano sempre spontanei.
La prima volta che ti ho visto, eri il bambino che avevo appena partorito. Saresti diventato mio figlio, un giorno alla volta, sempre di più. Sarei diventata tua madre, piano piano e per l’eternità, nel bene e nel male. Non avevo idea, la prima volta che ti ho visto, che stavo guardando anche me, per la prima volta, senza riconoscermi.
Questo bambino qui esce quasi sempre tra gli ultimi della sua classe. Perché ha ideato la “Davide Aiuta Company”, di cui è unico fondatore e membro, per dare una mano ai compagni quando si trovano in difficoltà a preparare lo zaino, o magari dimenticano qualcosa in aula.
Questo bambino qui si rifiuta di farsi aiutare a portare il suo zaino di seconda elementare, che certe volte pesa un accidenti. “Perché non voglio farti stancare, mamma”.
Questo bambino qui ha un salvadanaio diviso in due scomparti, “uno per me e uno per i poveri”.
Questo bambino qui piange quando sua sorella canta le canzoni della recita di Natale, in cui si fa riferimento a chi non ha niente, a chi è solo, a chi è triste.
Questo bambino qui è capace di fermarsi di botto nel mezzo di una giornata al luna park e di rabbuiarsi perché “i bambini poveri non possono andare sulle giostre”.
Questo bambino qui è il mio orgoglio. Ma è anche la mia spina nel cuore. Perché mi sembra affetto da un eccesso grave di empatia e di consapevolezza. Mi sembra troppo incline al senso del dovere, e di conseguenza al senso di colpa. Troppo fragile e ansioso, incapace di quella dose necessaria di egoismo che permette agli esseri umani di perseguire la propria felicità. Mi sembra, soprattutto, completamente o quasi privo di leggerezza.
E, manco a dirlo, mi sembra che tutto questo – per genetica, per educazione o forse per osmosi – lo abbia ereditato da sua madre.
Se c’è una cosa che vorrei dare ai miei figli sono gli strumenti per essere felici, e non sono affatto sicura di aver fatto finora un buon lavoro. Sono fiera di mio figlio. Della sua generosità, del suo altruismo, della sua profondità e del suo temperamento. Ma non vorrei mai che queste qualità finissero col diventare degli impedimenti per essere felice. Per essere libero. Non vorrei mai che lui, distratto ad ascoltare i bisogni degli altri, finisse col disimparare a riconoscere i suoi.
Quando andavo al liceo un mio compagno particolarmente brillante mi teneva delle goffe “lezioni di cattiveria”. Né io né lui ci rendevamo conto che quel nodo – l’incapacità di contattare la mia rabbia legittima, il bisogno di consenso e di riconoscimento da parte degli altri, la tendenza ad aderire ai loro standard e a perseguire il bene a ogni costo possibile – sarebbe stato centrale nella mia vita, nel bene ma anche nel male. Non vorrei che il mio figlio primogenito si trovasse ad attraversare le stesse asperità.
Come si fa a insegnare ai propri figli a essere “meno buoni”, e non solo a Natale?
Mio figlio ha paura del buio. Sta per compiere sette anni e ha paura del buio.
Affronta senza riserve gli animali selvatici, le altezze vertiginose, gli aghi delle vaccinazioni, l’acqua profonda. Viaggia all’estero con la disinvoltura di un manager d’impresa, cambiando albergo ogni sera senza il minimo problema. Va a scuola con entusiasmo fin dal primo giorno, curioso e aperto alle novità. Eppure mio figlio ha paura del buio, e a volte fa un po’ fatica a relazionarsi con i bambini, specie se sono più grandi e se sono in gruppo. È ostinato, ma anche piuttosto insicuro, e questo finisce col calamitargli addosso la tracotanza di chi è più strutturato di lui, col trasformarlo nell’elemento fragile della situazione, quello più esposto alle battutine e al sarcasmo. All’ostracismo da parte della banda. Eppure, ogni tanto mi sorprende con una consapevolezza ragguardevole, per la sua età. Come quella volta in cui, tornando dal campo estivo, mi ha detto felice che amava giocare a pallavolo “anche se sono scarso, mamma”. Come quando proclama il suo diritto a fregarsene dei supereroi e delle macchine, anche “se piacciono a tutti i maschi”. Oppure quando infila nello zaino il suo quaderno preferito, nonostante sappia perfettamente che sarà preso in giro perché il quaderno ha in copertina un disegno “da piccoli”, o “da femmine”.
Mio figlio ha paura del buio, e questo ogni tanto mi preoccupa molto. Come ogni tanto mi preoccupa il fatto che lui sia molto incline al pianto, che tenda a dichiararsi “pessimo” o incapace, che ripeta con enfasi le considerazioni orribili sulla vita che a volte – mea maxima culpa – vomito fuori nei miei attacchi di nichilismo insanabile. Mio figlio ha paura del buio, e questo mi fa sentire profondamente responsabile, colpevole delle sue fragilità e delle sue insicurezze. Dell’ansia che non di rado lo attanaglia, perché lui, un po’ come sua madre, non si sente “mai abbastanza”.
Mio figlio ha paura del buio. Mio figlio piange molto. Mio figlio, a volte, ha qualche incomprensione nei giochi di gruppo dei coetanei. E la verità, forse, è che non c’è niente di così allarmante, o “patologico”, in questo. Che questo non fa di lui un individuo infelice, o predisposto a una futura infelicità. La verità è che tutti, adulti e bambini, conviviamo con delle nevrosi, con delle debolezze, con dei fantasmi di cui siamo più o meno consapevoli. Solo che quando si tratta dei nostri figli, tendiamo a raccontare (e forse a raccontarci) una storia diversa. A farne una narrazione parziale e univoca. Edulcorata e acritica. E così i figli degli altri, di quasi tutti gli altri, finiscono col sembrarmi, di solito, equilibrati e risolti, maturi, inseriti socialmente. Graniticamente “sereni”, per utilizzare una parola che piace tanto sfoderare alle madri, forse per rassicurare in primis se stesse sulla propria attitudine alla genitorialità. Sembrano più felici dei miei, se li guardo da lontano o attraverso le lenti dei social, delle parole che su di loro spendono i loro stessi genitori.
E invece mio figlio ha paura del buio, e a volte sembra che sia l’unico, tra i suoi coetanei. Peccato, o fortuna, che poi, a guardare le altre famiglie senza filtri o più da vicino, vengano fuori un po’ per tutti quelle umane e forse inevitabili crepe che sono tipiche di ogni persona, adulta o piccina che sia: e c’è chi rifiuta la scuola, chi non riesce a dormire, chi fa la pipì a letto, chi mangia troppo, chi ha degli scatti di rabbia o stenta a socializzare. C’è chi ha la fobia degli animali, del mare, della sporcizia. E chi, come mio figlio, ha paura del buio. Che venga fuori, come sempre, che nessun genitore è perfetto e nessun figlio – nessun essere umano – è privo di fragilità, di insicurezze, di limiti. Che venga fuori che nessuna esistenza, appena cominciata o già segnata dal tempo, è esente da momenti di infelicità, di paura e di solitudine. Solo che in pochi riescono a dirsi ad alta voce tutta la verità.
Confesso che proprio non lo avevo messo in conto. Mai mi sarei aspettata, qualche anno fa, di trovarmi a dover dirigere i miei sforzi di genitrice (ed educatrice) in senso contrario rispetto a quello che di norma si pensa di dover fare quando si tenta di educare un bambino. Mai avrei pensato, in altri termini, di dover aiutare uno dei miei figli a essere un po’ più flessibile e indulgente nei propri confronti, un po’ meno preoccupato del rispetto delle regole, meno intransigente e rigido. Un po’ meno a simile a sua madre, per dirla in poche parole.
Quando pensiamo all’educazione di un figlio, del resto, tendiamo a concentrarci sempre sugli aspetti più “censori” e normativi dell’intera questione: nell’immaginario comune, un educatore è semplicemente colui che deve insegnare il rispetto delle regole, stabilire dei limiti di comportamento, imporre dei divieti e trasmettere un codice di norme condiviso e indispensabile per la vita di comunità. Eppure, la mia duplice e personalissima esperienza dimostra che può essere vero anche il contrario, e che puoi trovarti di fronte a un bambino che mostra una tendenza (innata, indotta o entrambe le cose insieme, chi può dirlo) a interpretare e applicare le regole con eccessivo rigore, col rischio paradossale di trovarsi in difficoltà tanto quanto chi le norme e le buone maniere preferisce di solito ignorarle.
Tu, allora, da madre e da educatrice (nonché da persona che convive da quasi quarant’anni con la stessa morale ipertrofica di tuo figlio) non puoi fare altro che improvvisare, come sempre, e cercare di accompagnare il tuo bambino sul terreno scosceso del buon senso, del compromesso, della ragionevolezza e dell’accettazione dei propri limiti. Della leggerezza. Quel terreno che tu stessa non hai mai esplorato fino in fondo e che, anzi, praticamente non conosci. Ma non vuol dire anche questo, a volte, fare il genitore? Insegnare cose che di fatto ignori, scortare i tuoi figli lungo sentieri che non hai mai inforcato prima?
Confesso che per me, che per l’appunto tendo a prendere le cose troppo sul serio, si rivela talvolta una operazione complessa. Specie se nel contempo hai la responsabilità di un altro figlio (una figlia, nel mio caso) che ti espone a sfide molto più tradizionali, e per le quali il tuo ruolo di educatore non può che declinarsi in maniera distinta e personalizzata. Non è semplice indirizzare uno dei tuoi figli al delle regole, mentre, allo stesso tempo, tenti di aiutare suo fratello a spogliarsi della sua estrema rigidità. E farlo mantenendo un minimo di coerenza e credibilità. Non è semplice introdurre un bambino di neanche 7 anni alla sottile arte del compromesso salvifico e delle eccezioni indispensabili, e allo stesso tempo convincere la sua più flessibile sorellina che il valore intrinseco di una eccezione sta, per l’appunto, nella sua rarità.
A volte mi capita di pensare con tenerezza alle fatiche “fisiche” dei primissimi anni di maternità, che il mio corpo tollerava forse meglio di quanto la mia mente non sembri riuscire a gestire, oggi, lo sforzo nervoso, emotivo e psicologico che richiede l’educazione di un figlio. O, come nel mio caso, di due figli, per giunta tanto diversi tra loro. È una sfida molto stimolante, però, soprattutto perché si alimenta con un materiale umano – Davide e Flavia – davvero straordinario e dal potenziale immenso, come tutti i bambini piccoli del mondo.
La sorpresa quotidiana del crescere un figlio passa anche da questo: educarlo, a volte, a un pizzico di “disobbedienza”.
Lo ripete mio figlio di sei anni, ogni tanto, e ogni volta mi impone di riflettere. Lo ripete ogni tanto, e io credo di capire cosa voglia dire. Che il nostro punto di vista è sempre relativo, parziale, opinabile. Che quelli che noi definiamo “cattivi”, probabilmente non si considerano tali. È l’eterna verità della Guerra di Piero: per il tuo nemico, il nemico sei tu. E la sua verità, di solito, vale tanto quanto la tua.
I buoni sono i cattivi dei cattivi. Ci penso sempre, quando leggo i proclami orgogliosi di chi “ha eliminato dalla propria vita le persone negative”, solo che magari quel proclama giunge da qualcuno che sono io a trovare fastidioso o irritante o ansiogeno. Ci penso, con un sorriso a metà tra il sarcasmo e l’amarezza, quando sento chi si lamenta della mancanza di attenzione e di empatia da parte “degli altri”, e magari non rivolge alla sottoscritta (e chissà a quanti altri) un pensiero da mesi. E mi dico che naturalmente lo stesso varrà anche per me, a parti invertite. Per quanti, ogni giorno, sarò io la cattiva, la pesante, l’ipocrita. La stronza senza empatia.
Come dice Davide col candore dei suoi sei anni, i buoni sono i cattivi dei cattivi, e a volte siamo noi stessi “i cattivi” per qualcuno. Quelli che difettano di misericordia, di pazienza, di tatto. Quelli che dimenticano gli altri, che li trascurano, che li deludono. Quelli che si lamentano troppo, o che si lasciano andare al vittimismo e alla negatività.
Pensiamoci, quando tacciamo qualcuno di essere uno stronzo, o una palla al piede, dimenticando che tutti siamo potenzialmente (e concretamente) stronzi agli occhi di qualcuno.
I buoni sono i cattivi dei cattivi. “A parte Voldemort, mamma. Perché lui è davvero cattivo!”.
La cosa più strana, per me, è che io ricordo benissimo di quando ce li avevo io, 6 anni. Dire che “mi sembra ieri” sarebbe un’esagerazione, ma l’idea che siano trascorsi trent’anni da allora mi stranisce sempre tanto. Ricordo i pomeriggi con le mie inseparabili amiche, le bambole e i giochi che usavamo ogni giorno, nella camera da letto dei miei che allora era ancora arredata col vecchio mobilio ereditato dai nonni. Ricordo l’armadio coi buchi minuscoli dei tarli e l’ossido sull’anta a specchio, e il profumo francese che mia nonna si dava la domenica mattina, poggiato sul comò come una specie di tesoro proibito. Ricordo la maestra Rosa con i capelli corti e il grembiule blu. Ricordo i timbri con l’Oca, l’Uva e la Nave che lei stampigliava in cima a ogni pagina di quaderno, e le letterine ricciolute che io vergavo riga per riga, con fatica e soddisfazione. Ricordo bene i miei 6 anni, al punto che a volte mi sembra davvero surreale avercelo io, un figlio di 6 anni.
Avere un figlio di 6 anni è avere un figlio che sta imparando a leggere e scrivere. E anche se lui non lo sa, sta gettando proprio adesso le fondamenta del suo avvenire, della propria consapevolezza e della libertà di scelta su cui potrà contare per tutta la vita. Mi dà la vertigine pensarci. Pensare al peso straordinario di quell’abecedario sottile, al valore indefinibile di questi primi anni di istruzione.
Avere un figlio di 6 anni è fare esperienza del conflitto e del disaccordo. Che sono cose assai diverse dai capricci e dalle fissazioni sperimentate prima. È avere un figlio che argomenta e che obietta, magari anche in modo sensato. E tu non sempre sai bene cosa rispondergli. Un figlio che guarda a sé e agli altri con maggiore consapevolezza, che soffre, spera ed esulta con una coscienza nuova. Un figlio con idee complesse e opinioni ponderate, che non sempre corrispondono alle tue.
Avere un figlio di 6 anni è cominciare a interrogarsi sulla qualità della sua vita sociale, sulle sue attitudini, sulle sue fragilità. Per provare ad accompagnarlo al meglio, tenendo in qualche modo a bada l’ansia e i sensi di colpa.
Avere un figlio di 6 anni è avere ancora un figlio bambino, che ha bisogno di te, che per certi aspetti dipende da te, e che ti ama ancora incondizionatamente come tutti i figli bambini. Ma vuol dire anche intravedere il figlio grande che avrai, con le infinite potenzialità e le sfide ardue che questo comporta. Crescere un pochino insieme a lui, a piccoli passi, vacillando ogni tanto. E ripensare alla maestra Rosa e al suo lungo grembiule blu.
Ti ho guardato darmi le spalle, lo zaino troppo grande per la tua schiena dritta di bambino. L’andatura ancora puerile, incontenibile, che diventa saltello ogni cinque o sei passi, senza che tu te ne accorga e possa in alcun modo evitare alle tue gambe quel guizzo infantile di insubordinazione e follia.
Ti ho guardato crederci, entusiasmarti e fremere nell’impazienza. E ti ho spiato esitare dinanzi all’ignoto. Stemperare l’ansia con la curiosità, nel dilemma tra andare e restare che da sempre attanaglia gli umani dotati di senno e di cuore. Nel dilemma che da tutta la vita toglie il sonno a tua madre. Ti ho guardato avere voglia e timore della stessa cosa, che poi equivale a dire vivere, perché questa è la vita, dopotutto: la paura in lotta permanente con la volontà.
Ti ho guardato darmi le spalle, eppure voltarti con lo sguardo, con la mente e col pensiero. Mi sono chiesta per quanto tempo ancora avrò su di me tale benedizione e tale condanna: essere ciò a cui guarderai ogni volta che ti servirà un incoraggiamento. L’orizzonte conosciuto, la rappresentazione tangibile delle tue origini, l’incarnazione di quanto ti è noto, ti è benevolo e rassicurante. Mi sono chiesta fino a quando ti basterà, e dove potrò mai volgere lo sguardo io, quando non sarà più necessario tenerlo fisso nel tuo.
Ti ho guardato percorrere una distanza risibile, ma che traccia in pochi passi tutta la fatica, l’amore, l’impegno di questi anni passati accanto a te. Mi sono chiesta dove siano finite le migliaia di ore trascorse finora a cullarti. Quelle in cui non c’era spazio che per l’attesa, e tutto sembrava dover cominciare e finire in un abbraccio dolcissimo ma un po’ soffocante. Un abbraccio che invece si è sciolto, lasciandomi traboccante e svuotata nello stesso tempo.
Ti ho guardato andare incontro a un avvenire di domande. Le tue, a cui io spesso non saprò rispondere, le mie, a cui prima o poi opporrai il più ostinato dei silenzi, le domande alle quali troveremo necessariamente risposte diverse, ognuno la propria, personale e insindacabile. E non sempre sarà facile accettarlo, spero più per me che per te.
Ti ho guardato andare. E, come sempre, è stato atroce e bellissimo, come molte delle cose che hanno a che fare con l’essere madre. Con l’essere tua madre.
Ti ho guardato darmi le spalle. Come sempre, e per sempre. È il mio destino ineluttabile. Il mio paradiso e il mio ergastolo.
Buona fortuna, figlio. Ho amato la scuola come poche altre cose nella vita, spero davvero che possa essere lo stesso per te.
Sei ancora piccolo, ma dietro ai tuoi lineamenti si intravede sempre meglio l’uomo che sarai. Chiami il mio nome se un brutto sogno ti sveglia, vuoi la tua mamma quando stai male, o quando hai paura. “Vieni vicino a me?”, mi chiedi mentre giochi sul tappeto della tua cameretta o mentre guardi la tv sul divano. Se però ci sono i tuoi amici, o un gioco nuovo da scoprire, io scompaio dai tuoi pensieri e dalla tua voce, come è giusto che sia. Mi tendi la mano prima di attraversare la strada, ma saltelli libero al mio fianco quando raggiungiamo il marciapiedi. Vuoi che legga per te i libri e le insegne dei negozi, ma davanti ai numeri mi dici: “Zitta, leggo da solo!”. Hai bisogno di me per molte cose, ma sono già tante le situazioni in cui sei tu che mi dai una mano. Il tuo naso, le tue mani, le tue spalle somigliano ancora a quelle del neonato che mi hanno posato sulla pancia molle quel venerdì di febbraio, ma i tuoi occhi no. Sono pieni di una consapevolezza che allora non c’era, ogni giorno maggiore. Sono pieni di te.
Sei ancora piccolo, ma non lo resterai poi così a lungo.
Oggi ti spiego la vita, già domani sarai tu a spiegarla a me. Senza sapere che me la stai insegnando ogni giorno, da quando sei venuto al mondo.
Buon quarto compleanno, Davide. Ti voglio un bene che non si può spiegare.
I miei figli sono due bambini come tanti altri. Hanno occhi grandi come tutti i mammiferi quando sono ancora cuccioli, e mani paffute che fanno tanta tenerezza. Dicono quelle cose disarmanti che dicono a volte i piccoli, ma altre volte sono ostinati e molesti. Egoisti e cocciuti come lo sono spesso i bambini. Indossano esattamente la taglia corrispondente alla loro età, hanno pesi e altezze perfettamente nella media dei bambini italiani. I miei figli hanno imparato a camminare entrambi quando avevano un anno e due mesi, né tardi né presto. Un’età normalissima, per così dire. Il primo ha parlato molto tardi e un po’ per volta, la seconda prestissimo e come un libro stampato. Diciamo che insieme sono, ancora una volta, perfettamente nella media.
I miei figli sono molto bravi in certe cose, ognuno in cose diverse. Davide se la cava con i numeri, e ha una memoria inquietante. Flavia si arrampica e salta come un piccolo primate, e impugna la penna meglio di me. Sono una frana in altre, inevitabilmente. Lei è stonata come una campana, lui per adesso non ha mostrato grandi doti di agilità. I miei figli sono molto bene educati, per certi aspetti. Per altri, invece, sono anarchici e indisciplinati. Ognuno a modo suo, tra l’altro. A testimonianza del fatto che il merito e la colpa, forse, non sono tutti miei e del loro papà. Davide si lava i denti con perizia ogni mattina e ogni sera, sua sorella, se continua così, si ritroverà la bocca completamente cariata entro i cinque anni di vita. Lei snobba la televisione da sempre, mentre a lui vanno imposti dei limiti, per evitargli una lobotomia. Lei piange se non può andare a scuola, lui ne farebbe quasi sempre a meno. Nel complesso, sono due normalissimi bambini di pochi anni.
I miei figli a volte fanno i capricci. Si fissano su delle questioni completamente irrazionali e fanno sceneggiate isteriche da manuale finché non vengono accontentati, oppure distratti con sistemi più o meno ortodossi (anche perché entrambi possono contare su un tono di voce, quello sì, un po’ sopra la media). Sono entrambi golosissimi, buon sangue non mente… Evitare che la merenda diventi un tripudio di zuccheri e grassi è a volte un’impresa. In compenso non si lamentano mai per andare a dormire la sera, e per il momento non chiedono ancora giocattoli o altri regali. Sono bambini. Normali bambini di quattro e due anni.
I miei figli da qualche tempo si adorano reciprocamente. Giocano insieme a lungo, si abbracciano (Davide abbraccia Flavia e lei tenta di sottrarsi, per la precisione), scoppiano a ridere all’improvviso per cose che capiscono soltanto loro. Ma spesso litigano con una furia cieca, si strappano di mano i giocattoli e tentano di prendersi a botte. Due fratelli normalissimi, come ce ne sono a miliardi nel mondo.
I miei figli non sono speciali. Hanno qualcosa di speciale, certo. Come tutte le persone del mondo. Sono deliziosamente unici, proprio come ogni essere umano che se ne vada a spasso per questo pianeta malridotto e bellissimo. Ma sono bambini come tutti, coi loro talenti e le loro difficoltà. Con le loro paure. Con i loro limiti. Sono precoci in certe cose e molto “lenti” in altre. Ragionevoli o capricciosi. A volte ti spiazzano con l’acume e la profondità delle loro osservazioni, e in altri momenti si rivelano per quello che sono: due bambini piccoli, con ancora tutta la vita davanti per crescere e fare esperienza del mondo.
Sono, semplicemente, due bambini normali. E questa cosa non potrebbe rendermi più felice, oltre che soddisfatta di loro. Li amo esattamente così come sono, non ho mai avuto bisogno di considerarli “avanti”, o straordinari, o “bravissimi” per cogliere la portata immensa del loro valore. Che poi è la stessa per ogni bambino – o adulto – dell’umanità. Voglio dei figli, non dei supereroi. Non mi porta che loro siano i migliori, non mi importa che siano i primi. Sono i miei figli, e voglio solo che siano felici.