L’eredità di mia madre risiede in una quantità di cose piccolissime eppure importanti e inestimabili. Cose probabilmente mai indispensabili, ma che in fondo sono le sole in grado di fare davvero la differenza. Quel genere di cose superflue e allo stesso tempo necessarie. Non dovute, ma che, quando a un certo punto ti rendi conto di averle perse per sempre, ti mancano con una disperazione che prima non avresti mai saputo immaginare.
amore
Lamentarmi della mia forma fisica, e in particolare del mio peso.
Sfogarmi ad alta voce dopo una incursione sulla bilancia, rammaricarmi per la difficoltà di dimagrire o, viceversa, compiacermi per la perdita di qualche chilo e di qualche centimetro. Eppure sono stata un’adolescente anoressica: dovrei sapere quanto può essere deleterio e pericoloso associare la magrezza alla bellezza, al benessere e alla felicità. Da qualche tempo ne sono però finalmente consapevole: voglio che entrambi i miei figli crescano con una madre che punta alla tutela della propria salute e all’accettazione piena di se stessa, a mangiare cose che le fanno bene e le danno gioia. Perché possano imparare che tutti siamo diversi e unici, e che ciò che conta è avere rispetto per il proprio organismo e mantenersi in buona salute. Non certo essere “magri” o aderire a determinati canoni estetici arbitrari, transitori e talvolta apertamente insalubri.
Quando la malattia entra nella tua vita pur senza toccarti personalmente, rischi di ammalarti a tua volta, anche se da fuori nessuno se ne accorge.
Rischi di ammalarti del senso di colpa, prima di tutto. Non solo e non tanto della “vergogna dei sani” che hanno ancora le mani che funzionano, il cuore che batte a un ritmo sicuro e regolare, la mente e il passo giovani e saldi. Ma soprattutto della vergogna inconfessabile di chi, quella fortuna di essere ancora sano e forte vuole continuare a esercitarla, a onorarla, a goderne come può. Perché quando la malattia irrompe nella tua vita, o vi ritorna di prepotenza, prima o poi ti assale quel dubbio dilaniante: come puoi continuare ad andare al cinema, a laccarti le unghie, a uscire con un’amica, a mangiare sushi e bere vino? Come puoi pensare di ridere coi tuoi figli, di fare una gita fuori porta, di fare l’amore con tuo marito o di comprarti un vestito nuovo, se intanto qualcuno che ami continua a star male?
(Un promemoria per le giornate difficili, per i momenti di stanchezza, per la preadolescenza che incombe)
Dei miei figli, e della loro età, amo il fatto che ormai, quando mi fanno gli scherzi, non devo fare più finta di cascarci, perché il più delle volte mi fregano davvero. Che far loro un regalo, di solito, significa realizzare un sogno della bambina che sono stata, e in molti casi anche dell’adulta che sono diventata. Amo che giocare con loro somiglia sempre di più a quello che avrei fatto con piacere, nel mio tempo libero, anche prima di essere la loro madre: costruire un Lego, fare una sfida a Scarabeo, riguardare per l’ennesima volta “il Signore degli Anelli” o andare a visitare un museo.
La domanda, lo riconosco, è provocatoria.
Il fatto è che, dopo i primi anni di maternità – nei quali mi scontravo di continuo con la retorica dei “piezz’ ‘e core” e l’icona della italica e perfettissima madre materna sempre sorridente, amabile e innamorata della prole (nonché pronta a immolarsi in tutto e per tutto in nome del loro supremo bene) – da qualche tempo mi sembra a volte di essere circondata da genitori insofferenti, esauriti e che, in buona sostanza, mal digeriscono la compagnia della prole.
C’è un pensiero che mi accompagna, senza farmi compagnia, da alcuni giorni.
Un pensiero per niente estivo e per certi versi censurabile, che è difficile condividere perché è difficile da ascoltare. Da fronteggiare.
Il pensiero del male che, inevitabilmente, finiamo col fare ai nostri figli.
È un’idea che tendiamo d’istinto a rimuovere, per fortuna, un po’ come cancelliamo, per la maggior parte del tempo, la consapevolezza della morte che ci attende inevitabile. La natura, nella sua infinita saggezza, ci garantisce una generosa dose di oblio e di dimenticanza, che ci consente di andare avanti in serenità e goderci l’esistenza un giorno dopo l’altro.
Ho continuato a cercare il mio gatto dentro tutti i gatti che non sono il mio. Lo cerco e non lo trovo, e ogni volta il dolore mi spezza il respiro e la delusione mi annebbia lo sguardo. Amo sinceramente tutti i gatti del mondo, ma non riesco – non ancora, perlomeno – a perdonarli di non essere il mio.
Ho fatto, da quando sono state allentate le restrizioni anti Covid, una moltitudine di gite, escursioni, visite guidate. Sono tornata in posti che a lungo ho chiamato casa e dai quali mancavo da anni, ho ripreso a circondarmi di arte, natura e bellezza, ho ritrovato amici e compagni di strada che in realtà, a quanto pare, non avevo perduto mai. Ho dormito finalmente, a distanza di mesi, in letti diversi dal mio. E ho scoperto che non è necessario condividere in diretta le esperienze che si vivono. Che si sta bene anche senza le stories con la musica a effetto, le foto e i post da affidare “al mondo” in tempo reale. Ho scoperto, più in generale, che le cose accadono e appagano anche se uno se le tiene per sé (e questa, in qualche modo, mi è parsa come un’epifania inattesa e rivoluzionaria).
Se in questi mesi vi sarà capitato, come a me, di accompagnare uno dei vostri anziani genitori a ricevere il suo vaccino per il Covid, avrete forse provato la mia stessa, inedita, sensazione. Un misto di tenerezza e straniamento, soprattutto per chi, come la sottoscritta, è abituata da anni a frequentare i centri vaccinali insieme ai propri figli piccoli. Vedere decine di uomini e donne anziani in attesa tutti assieme, talvolta incerti o titubanti, accompagnati, indirizzati, in qualche caso condotti o scortati dai propri figli, è stata un’esperienza nuova, a tratti commovente.
Ci sono arrivata. E questa, nel bel mezzo di una pandemia mortale, mi sembra già una buona notizia. Ci sono arrivata sobria, coniugata e incensurata. E questa, dopo un anno praticamente ininterrotto di Dad e smart working di coppia, mi sembra già una ragione più che sufficiente per festeggiare. Ci sono arrivata, e sono tutt’altro che sola. E questo, forse, è per me il sollievo più grande. Conto gli amici veri sulle dita di due mani, ma sono dita ammantate di oro e zaffiri, lapislazzuli e perle, rare e preziose. Conto la mia famiglia ogni giorno, e la riconto ancora una volta per essere sicura che non manchi nessun altro. Quella famiglia che non mi sono scelta e che non sempre mi somiglia, ma che c’è, semplicemente, anche quando parliamo lingue distinte e inforchiamo sentieri che divergono verso orizzonti lontanissimi. Conto i figli che la vita mi ha affidato, le loro piccole dita, i loro sorrisi, le raffiche di baci e i loro sogni scintillanti. Conto gli anni passati accanto al loro papà, in pratica metà di quelli che ho vissuto.Ci sono arrivata stanca, ma indomita. Sempre più intenzionata a non sprecare il mio tempo, a non gettare via la mia vita, a non rassegnarmi. A non cedere ai compromessi che non siano davvero inevitabili. Ci sono arrivata piena di cicatrici, di nei, di tatuaggi. Di ricordi. Piena di ombelichi: un nodo per ogni strappo, un piccolo buco per ogni partenza.Ci sono arrivata risalendo spesso la corrente, con tanta fatica e talvolta con un accanimento masochistico. Mai per vezzo, però, e (quasi) mai per partito preso. Ci sono arrivata ancora idealista, ancora polemica, ancora curiosa. Ancora testarda come un mulo testardo. E di questo, in tutta onestà, non posso fare a meno di essere fiera.Ci sono arrivata con alcuni insanabili rimpianti e pochi, affezionati fantasmi. Ma ho preso l’abitudine di guardare in faccia gli uni e gli altri, e forse proprio per questo mi fanno molta meno paura di un tempo. Ci sono arrivata con tantissimi dubbi, ma le poche certezze che coltivo sono ormai salde e preziose, resistenti e ostinate come una barca vichinga di Floki, il costruttore di navi.Ci sono arrivata, e non vivo nel posto che sognavo, non conduco la vita che sognavo, non faccio il lavoro che sognavo. Eppure cerco di somigliare ogni giorno di più alla persona che sogno da sempre di riuscire a diventare. E questa, forse, è la cosa che conta davvero.
Da oggi “c’ho” (due volte) vent’anni,
“E andare un passo più avanti, essere sempre vero
Spiegare cos’è il colore a chi vede bianco e nero”.
Gli ultimi mesi, a casa nostra, sono stati difficili e molto stancanti. Alla situazione ormai estenuante che tutti condividiamo da un tempo che mi sembra interminabile, si sono aggiunti grandi e piccoli problemi, preoccupazioni, inconvenienti da risolvere. Rogne di qualsiasi tipo. Nulla di irrimediabile, per fortuna, ma lo stress e la fatica (soprattutto psicologica) si sono fatti sentire con forza, per i grandi e per i piccoli di casa.
Non è stato, naturalmente, l’unico periodo difficile da quando condivido l’esistenza con Davide e Flavia. Come qualsiasi altra famiglia, in questo decennio abbiamo dovuto confrontarci con lo stress, la malattia, il lutto. Contrasti, problemi di lavoro, abbandoni: alti e bassi, come sempre. Come tutti, appunto.