Questo bambino qui esce quasi sempre tra gli ultimi della sua classe. Perché ha ideato la “Davide Aiuta Company”, di cui è unico fondatore e membro, per dare una mano ai compagni quando si trovano in difficoltà a preparare lo zaino, o magari dimenticano qualcosa in aula.
Questo bambino qui si rifiuta di farsi aiutare a portare il suo zaino di seconda elementare, che certe volte pesa un accidenti. “Perché non voglio farti stancare, mamma”.
Questo bambino qui ha un salvadanaio diviso in due scomparti, “uno per me e uno per i poveri”.
Questo bambino qui piange quando sua sorella canta le canzoni della recita di Natale, in cui si fa riferimento a chi non ha niente, a chi è solo, a chi è triste.
Questo bambino qui è capace di fermarsi di botto nel mezzo di una giornata al luna park e di rabbuiarsi perché “i bambini poveri non possono andare sulle giostre”.
Questo bambino qui è il mio orgoglio. Ma è anche la mia spina nel cuore. Perché mi sembra affetto da un eccesso grave di empatia e di consapevolezza. Mi sembra troppo incline al senso del dovere, e di conseguenza al senso di colpa. Troppo fragile e ansioso, incapace di quella dose necessaria di egoismo che permette agli esseri umani di perseguire la propria felicità. Mi sembra, soprattutto, completamente o quasi privo di leggerezza.
E, manco a dirlo, mi sembra che tutto questo – per genetica, per educazione o forse per osmosi – lo abbia ereditato da sua madre.
Se c’è una cosa che vorrei dare ai miei figli sono gli strumenti per essere felici, e non sono affatto sicura di aver fatto finora un buon lavoro. Sono fiera di mio figlio. Della sua generosità, del suo altruismo, della sua profondità e del suo temperamento. Ma non vorrei mai che queste qualità finissero col diventare degli impedimenti per essere felice. Per essere libero. Non vorrei mai che lui, distratto ad ascoltare i bisogni degli altri, finisse col disimparare a riconoscere i suoi.
Quando andavo al liceo un mio compagno particolarmente brillante mi teneva delle goffe “lezioni di cattiveria”. Né io né lui ci rendevamo conto che quel nodo – l’incapacità di contattare la mia rabbia legittima, il bisogno di consenso e di riconoscimento da parte degli altri, la tendenza ad aderire ai loro standard e a perseguire il bene a ogni costo possibile – sarebbe stato centrale nella mia vita, nel bene ma anche nel male. Non vorrei che il mio figlio primogenito si trovasse ad attraversare le stesse asperità.
Come si fa a insegnare ai propri figli a essere “meno buoni”, e non solo a Natale?