La fase 2 della gestione di questa biblica pandemia è ancora lontana. Questo mi è molto chiaro. E voglio dare per scontato che, seppure senza darci comunicazione delle ipotesi, delle proposte e delle opzioni al vaglio (un riserbo che, visti i precedenti, sarebbe cosa buona e giusta), esperti e scienziati stiano lavorando alacremente per definire una strategia che ci consenta, in attesa del vaccino o di una cura efficace, di convivere con il nuovo Coronavirus.
Devo dire, che forse a causa del clima di preoccupazione e di stanchezza che ormai ci circonda tutti, non riesco a sentirmi molto ottimista. Il mio timore, devo confessarlo, è che finiremo col perdere l’occasione di trasformare questa crisi devastante e senza precedenti nell’opportunità per ripensare il nostro modo di vivere, la nostra concezione della famiglia e del lavoro, il nostro rapporto con la natura e con l’ambiente.
Due possibili “soluzioni” che circolano negli ultimi giorni, per esempio, mi hanno lasciato perplessa sullo spirito con cui ci prepariamo alla “vita che verrà”, che mi piacerebbe fosse impostata su principi diversi, più umani e sostenibili, di quella che abbiamo condotto prima dell’epidemia. La prima riguarda i pannelli di plexiglass attorno agli ombrelloni, come misura di distanziamento sociale a tutela della salute dei bagnanti. Senza entrare nel merito di quanto possa essere piacevole chiudersi in spiaggia in un alveare di plastica (il che rientra nella percezione soggettiva di ciascuno di noi), mi chiedo solo cosa si possa prevedere nel momento in cui i villeggianti dovranno uscire dai loculi. Diciamo dal bagnasciuga in poi. E cosa ne sarà di quelle postazioni affittate solo un giorno alla volta? Andranno sanificate accuratamente tra il crepuscolo e l’alba? Mi auguro, invece, che le risposte che sapremo trovare tutti insieme (addetti ai lavori, autorità di settore ma anche semplici cittadini/utenti) vadano nella direzione di una fruizione più sostenibile e consapevole delle spiagge, e della natura in generale. Anche se questo dovesse comportare una rinuncia sostanziale per tutti (abituarsi a passare, per esempio, meno giorni del solito di fronte al mare). Perché non cogliamo l’occasione per rivedere l’organizzazione delle nostre aziende, il sistema delle ferie e i calendari scolastici, perché non sfruttiamo il momento per rivoluzionare la nostra concezione di vacanze e di stagione balneare, di concessioni demaniali etc? Dico per dire, parlo a vanvera. Io non ho competenze per abbozzare risposte, solo la facoltà di fare domande.
Altro tema tanto dibattuto quanto di fatto finora trascurato. La didattica a distanza “ad libitum sfumando”.
Su questo argomento non posso che aggiungere una serie infinita di ovvietà, che mi limito solo a ribadire perché sono state dette, ridette, scritte e riscritte già decine di volte:
1. Se i genitori dovranno tornare al lavoro, chi seguirà questi bambini per diverse ore al giorno nella didattica on-line?
2. Se i genitori saranno così fortunati (e non lo dico con sarcasmo) da continuare a lavorare da casa, come faranno a conciliare il lavoro con la didattica online (e le altre infinite incombenze e responsabilità che gravano su chi è adulto e ha anche dei figli piccoli da accudire)? Chiunque abbia provato a fare “smart working” con dei figli piccoli in casa, a loro volta alle prese con compiti, video lezioni, letture e schede, sa che conciliare le due cose nel medio e lungo periodo, semplicemente, non è possibile.
3. Che ne sarà di tutte le famiglie che non dispongono di strumenti – economici, tecnici, culturali, psicologici – per fare questa specie di home-schooling a cui siamo stati convocati ormai da molte settimane? Chi li aiuterà a recuperare il gap inesorabile che avranno accumulato mese dopo mese, forse aggravando una situazione di svantaggio che già sussisteva prima della pandemia?
Non sarebbe il caso di ripensare le nostre scuole da capo? Di ristrutturare dalle fondamenta la scuola delle province meridionali – e probabilmente non solo meridionali – dove, lo ripeto di continuo, mancano le mense, il tempo pieno, i bidelli, le aule, le palestre, i laboratori etc etc etc? Non sarebbe giunto finalmente il momento di chiedersi che senso abbia una società in cui l’orario lavorativo della stragrande maggioranza dei genitori non coincide neanche lontanamente con quello delle scuole dei loro figli (per non parlare del divario folle tra ferie e chiusure scolastiche)?
E le pubbliche amministrazioni, la burocrazia, le università: perché, già che siamo finiti col sedere per terra e ci tocca di fatto ricominciare da zero, non sfruttiamo questa drammatica occasione per ripensare davvero l’impianto stesso della nostra struttura sociale? Capisco bene che servano soldi, competenze, risorse, tempo: ma a quanto pare siamo messi così male che forse vale la pena davvero demolire tutto e ripartire da capo.
Sapevo fin dall’inizio che questo sarebbe stato un post piuttosto qualunquista, e me ne scuso con chi lo ha letto fino in fondo.
Ma la mia timida speranza rimane quella che non si perda l’occasione di rivoluzionare le nostre esistenze in chiave di una maggiore sostenibilità, di una maggiore umanità, di una maggiore uguaglianza. Se così fosse, il sacrificio immenso che stiamo pagando all’epidemia sarebbe non certo accettabile, ma un pochino meno vano.
4 Commenti
Non so cosa risponderti, sai? Se non che nemmeno io sono particolarmente ottimista, anche se ci provo, con forza a vedere un mondo migliore nel post pandemia, perché non saprei altrimenti a cosa aggrapparmi.
Finché c’è vita…
É invece una riflessione molto accurata e necessaria la tua, altro che qualunquista. Bisognerebbe approfondire tutti questi temi e portarli all’attenzione di chi dovrà decidere per i nostri figli e per la nostra salute
Claudia
Già. Hai ragione…