Sono stata molto in dubbio sull’opportunità di pubblicare questo post. Ho deciso di farlo, alla fine, perché potrebbe forse servire a qualcuno che vive un’esperienza simile, oltre che per conservarne memoria io stessa.
Nove giorni. Tanto è durato il tempo in cui ho temuto che mia figlia potesse avere problemi anche gravissimi di udito. Nove interminabili giorni, in cui mi è stato chiaro come mai prima che basta un attimo per deragliare dalla cosiddetta “normalità”, per ritrovarsi a fare i conti con quello che si immagina accadere sempre e solo “agli altri”. Quanto sia sottile quel filo che rende ordinarie le nostre esistenze, quanto labile la linea che separa chi vive una vita qualsiasi e chi deve misurarsi ogni giorno con bisogni, abilità e attitudini speciali.
Nove giorni in cui ho dovuto guardare in faccia senza ipocrisie il mio rapporto con la diversità, chiedermi come sarei stata nei panni della madre di una figlia sorda, cosa avrei saputo fare per lei, cosa avrei temuto più di tutto, come avrei gestito le reazioni del mondo alla condizione di Flavia. Nove giorni dolorosi e illuminanti che sono stati un viaggio in territori inesplorati della mia psiche e della mia sensibilità, oltre che in un pianeta popolato di famiglie normalissime, bambini come tutti gli altri e genitori con risorse straordinarie.
Prima c’è stata la paura. L’incredulità, il rifiuto. “Non sta accadendo davvero, non a me. Non a mia figlia“. La diffidenza verso il medico che mi stava comunicando la potenziale cattiva notizia, il fastidio nel doverla ascoltare.
Poi è subentrata la speranza, mascherata da quell’istinto di madre che spesso intravede la verità – fulgida o dolorosa che sia – prima degli strumenti diagnostici, dei referti, prima delle sentenze inappellabili. “Mia figlia sobbalza ai rumori improvvisi, viene svegliata dai gridolini del fratello. Mia figlia, soprattutto, si calma quando le sussurro all’orecchio, si rilassa se le canto certe canzoni, mi fissa immobile quando le parlo con tutto l’amore che posso“.
Infine, è sopraggiunta la consapevolezza. “Se anche ci trovassimo di fronte a una diagnosi severa, abbiamo i mezzi, la cultura e la volontà per offrirle le cure più avanzate e tempestive, il supporto più incrollabile, l’amore più incondizionato“. In certi momenti, addirittura, ha quasi preso forma, nella mia mente, un pensiero eretico, ai limiti della follia: se fosse Flavia, a doversi misurare con la disabilità, almeno potrebbe contare su una famiglia che è nella condizione non scontata di poterla aiutare al meglio; tanti altri bambini, invece, di fronte alla stessa malattia non avrebbero questa possibilità.
Il sollievo è giunto in un mattino piovoso, in mezzo al dolore di tante madri e alla composta forza d’animo di altre. Tra padri piegati dalla fatica e dalla solitudine, e operatori sanitari avvezzi al dolore dei più piccoli, che probabilmente è il più grande di tutti. Circondato, soprattutto, da bambini ignari e innocenti, con sorrisi e lacrime identici a quelli di tutti i bambini del mondo, a cominciare dai miei.
Mia figlia sta bene, è destinata, per quanto possiamo saperne, a una vita normale e deliziosamente mediocre. Ma il verdetto più importante, e francamente tutt’altro che annunciato, lo aveva già emesso, alla fine di quei nove indimenticabili giorni, il mio cuore. La bambina che ho dato alla luce qualche settimana fa, la figlia mia e dell’uomo che ho scelto per la vita, sarebbe stata in ogni caso perfetta ai miei occhi, e per nessuna ragione al mondo l’avrei mai “scambiata” con una bimba sana, se anche questo fosse stato possibile.
Mia figlia è esattamente la figlia che voglio avere, la sola e l’unica, e sarebbe stata tale anche se a separarci ci fosse stata l’incomunicabilità più nebbiosa, il silenzio più ostinato. Dopo nove giorni di “se” e di “forse” ne ero ormai certa.
Il mio amore grande, più delle cure, della tecnologia e degli interventi medici, sarebbe in qualche modo riuscito a infrangerlo, quel muro impenetrabile.
Per la cronaca, che magari è di aiuto a qualcuno, alla dimissione dall’ospedale in cui è nata, Flavia è stata sottoposta, come di prassi in quasi tutti i punti nascita, al test dell’udito basato sulle otoemissioni acustiche, che ha dato esito dubbio (REFER) per entrambe le orecchie. Ci è stato detto che si tratta di una evenienza non rara, legata di solito alla presenza residua di liquido amniotico o vernice caseosa nei condotti uditivi, ma che occorreva rifare l’esame per escludere qualsiasi problema. Il test è stato ripetuto dopo un paio di settimane, con esito identico, spiegabile in teoria con l’interferenza di eventule catarro (in effetti mia figlia era raffreddata). A questo punto siamo stati caldamente invitati a sottoporre la piccola a un esame ABR, che consiste – perdonatemi se lo spiego in termini grossolani, ma è solo per intenderci – nell’applicazione di elettrodi sul cranio del paziente addormentato, nell’invio di stimoli acustici e nella registrazione delle risposte. Flavia è stata sottoposta al test nove giorni dopo, all’ospedale pediatrico di Napoli Santobono. L’indagine ha escluso la presenza di condizioni patologiche, evidenziando solo un deficit lievissimo e transitorio (e in ogni caso non invalidante) legato allo stato di raffreddamento della bambina.
19 Commenti
qualsiasi genitore affronta con più paura che se fosse su di se un eventuale difficoltà per il proprio figlio. E’ normale, credo. E’ amore. L’importante è realizzare quello che hai fatto tu: che il proprio figlio è sempre e comunque unico e speciale per noi!
Vero. Nella sala d’attesa risuonavano di continuo le stesse parole: “Perché non è successo a me?”
Post toccante, vero, profondo. Posso solo immaginare quanto siano stati lunghi quei nove giorni, io li ho vissuti in maniera diversa vista la prematurità dei miei bimbi (erano state evidenziate delle zone d’ombra nel cervello, senza possibilità di capire quali ritardi avrebbero potuto comportare). Grazie per aver condiviso questa esperienza, mi ha fatto molto riflettere.
Grazie a te, di cuore. Ora come stanno i bambini?
Non riesco ad immaginare cosa più terribile, veramente. L’attesa di una diagnosi riguardante un proprio caro è angosciante, per un figlio immagino lo sia ancora di più. A volte penso alla forza che hanno dovuto avere i miei genitori ad affrontare il mio diabete quando avevo poco più di 6 anni e a quanto la cosa li abbia segnati, come persone e come coppia. Essere genitori è una vera impresa. Ti ammiro tanto per il modo in cui hai affrontato la cosa. Forse dovrei allenarmi ad ammirare di più anche i miei genitori.
Grazie Vale, forse dovemmo sforzarci tutti di essere più riconoscenti (o almeno indulgenti) verso i nostri genitori… Comunque sono certa che i tuoi siano stati aiutati molto da te, anche se forse non ne sei consapevole. Io, una figlia come te, la gradirei parecchio!
Grazie mille. Sappi che quello che fai è molto importante. Il modo in cui scrivi e quello che scrivi fa pensare e riflettere. Hai un dono e devi esserne fiera.
È successo anche a noi. Dopo due settimane dalla nascita abbiamo dovuto portare Francesco a controllo perché il test dell’usato aveva dato esito negativo all’orecchio destro. Per fortuna fu solo uno spavento durato due settimane! Ma mi trovai a riflettere, arrivando alla tua stessa conclusione: mio figlio era perfetto, esattamente il figlio che volevo! Sarebbe stato l’effetto in ogni caso!
Quanti pensieri, queste creature! Un abbraccio.
Piccole orecchie sante, che spavento. Il cuore e la forza di una mamma possono tutto, però. Però.
Vi abbraccio e vi faccio un urletto disturbatore <3
Magari più tardi, ché ora dormono entrambi (miracolo!) 😉 Grazie mille.
I controlli neonatali sono fondamentali. Ma mettono una gran paura anche se per il bene del bambino. Il 30 settembre mio figlio aveva 3 settimane. Mi chiamano per dirmi che avevano registrato un’anomalia del marcatore della fibrosi cistica e che andava ripetuta l’analisi. Hanno iniziato a fare domande sulla crescita e altri dati. La maggior parte erano confortanti, non tutti però. Mio figlio di peso cresceva poco. Per una settimana c’è stata la paura. Poi, come hai scritto tu, subentrano tutti i ragionamenti del mondo, che avremmo fatto tutto quello che si sarebbe dovuto fare nel caso in cui fossero state confermate le analisi e che noi in ogni caso eravamo lì. Poi fortunatamente è arrivato l’esito delle controanalisi.
Ti mando un abbraccio
Io sono sorda oralista. In casi così la discriminante è il livello culturale della famiglia.
La mia mi ha supportata battendosi contro le istituzioni che esigevano che io, in quanto sorda, fossi ritardata mentale, nonostante tutto dimostrasse il contrario: i medici dissero che a fatica avrei finito le scuole dell’obbligo, a scuola ero trattatrattata da idiota e umiliata, insultata in ogni modo da compagni e professori.
No si accettava che io, sorda, fossi bella e intelligente. Era un affronto.
A scuola ero la prima della classe, e ho fatto il liceo scientifico, non proprio una passeggiata, poi sono arrivata 36 su 2000 al test di ingresso di università a numero chiuso, ho insegnato ballo, ho suonato tre strumenti.
Se non fosse stato per i miei genitori, nulla sarebbe stato possibile perché la società è un disastro, ancora chiusa in pregiudizi medievali e spaventata dal diverso. Anzi, non solo spaventata: rabbiosa e feroce e crudele verso il diverso che non si manifesta inferiore ma alla pari. Non si tollera che un disabile sia bravo tanto o più di noi normali e sani
È esattamente quello che ho pensato io mentre aspettavamo una diagnosi certa e, anche se sembra brutto dirlo, guardandomi intorno in ospedale. Speriamo che i nostri figli si trovino a crescere in un contesto migliore, dipende moltissimo anche dal lavoro che facciamo e faremo noi con loro.
Ricambio l’abbraccio, grazie di cuore.
Silvana, mi dispiace.
Non mi sono trovata nella tua situazione, ma credo di capire cosa tu abbia provato perché ho vissuto nel profondo di me stessa, della mia mente sempre così ostinatamente vigile, puntigliosa, inesorabilmente analitica e iper-razionale, cosa vuol dire perdere il controllo e cedere alla forza, alla violenza dell’amore materno. L’unica volta nella mia vita, almeno per quanto ricordi, in cui il mio cervello ha dovuto quasi totalmente abdicare di fronte a un istinto cieco, sordo e totalitario…
Nonostante sia rimasta incinta alla tenera età di quasi 38 anni, non perché non riuscissi (è andata in porto al primo tentativo!) ma perché, stupidamente, un orologio biologico un po’ inceppato non mi faceva immaginare le gioie della maternità, mi sono rifiutata di fare l’amniocentesi.
Proprio io, che ho sempre riposto tutta la fiducia nella mia intelligenza e le energie nello studio, io che vivo con l’ossessione del controllo e cerco conforto e rassicurazione in numeri, studi, statistiche…
Ricordo ancora quel grigio giorno di dicembre in cui, in attesa di sottopormi al prelievo, guardando fuori dalla finestra della sala d’aspetto dell’ospedale ho iniziato a piangere a dirotto. Piangevo non perché preoccupata dall’amniocentesi in sé in relazione al rischio di aborto, piangevo perché sapevo che non avrei MAI, mai per nulla al mondo, ucciso il bambino che portavo in grembo nel caso l’avessi scoperto ammalato o down.
La mia razionalità, prima di rimanere incinta, suggeriva comportamenti responsabili adducendo motivazioni quali “Che vita farebbe, poverino” o “Chi si prenderebbe cura di lui, quando tu e tuo marito non ci sarete più”. Mi ritenevo sicura, chiusa nella fortezza inespugnabile della mia scatola cranica. Ma, in quel momento, non l’ascoltavo più. Si trattava di mio figlio, del mio bambino che avrei amato e protetto in qualsiasi circostanza, che fosse disabile, ritardato o quant’altro. Quel giorno ho preso la mia decisione, e non mi sono pentita neanche per un attimo. La mia gravidanza è, incredibilmente per la mia natura, proseguita serena sino alla fine, quando ho finalmente avuto la certezza che il mio cucciolo fosse sano.
Certo, mi ero comunque preventivamente sottoposta al test integrato, una metodologia di screening tra le più efficaci ed evolute per la diagnosi precoce della sindrome di Down e altre anomalie cromosomiche, da cui risultava il profilo di rischio di una ventenne. E, unica concessione alla mia razionalità, sapevo che il rischio di un falso negativo del test integrato era persino più basso di quello di un falso positivo dell’amniocentesi… Ma penso qualunque donna, alla mia veneranda età, si sarebbe in ogni caso sottoposta all’amniocentesi per maggior sicurezza.
Quindi ti capisco, Silvana, capisco cosa vuol dire amare incondizionatamente in quanto madre e rimanere indifferente, pur nella sofferenza, a “handicap” presunti o reali dei propri figli. Perché, e lo dico dal profondo del mio sangue 100% partenopeo (pur essendo io stata trapiantata al nord in tenerissima età!), i figli “so’ piezz’e core”, non di cervello.
Anche a me è capitato con la secondogenita. Subito entrambe le orecchie non “rispondevano”, dopo 2 settimane esito positivo al 50% e dopo 3 settimane esito positivo, ma l’ansia comunque c’era. Il bimbo di una mia carissima amica ha messo da poco l’apparecchio ed è un amore, vederlo felice dopo 16 mesi di vita in un acquario. I genitori sono super in gamba ed hanno accettato il fatto che il deficit probabilmente è stato causato da un virus contratto appena dopo il parto. È proprio vero che sembra impensabile finché non ci tocca da vicino!
Che bel post Silvana, sincero e intimo. Mi sono ritrovata nella tua situazione per altra patologia, con un’attesa più lunga ed un esito purtroppo non di assoluzione completa e tra tutti i tuoi pensieri, che ho provato, mi ritrovo soprattutto in quello che tu definisci eretico, questo passaggio bellissimo io lo posso quotare in toto.
nfine, è sopraggiunta la consapevolezza. “Se anche ci trovassimo di fronte a una diagnosi severa, abbiamo i mezzi, la cultura e la volontà per offrirle le cure più avanzate e tempestive, il supporto più incrollabile, l’amore più incondizionato“. In certi momenti, addirittura, ha quasi preso forma, nella mia mente, un pensiero eretico, ai limiti della follia: se fosse Flavia, a doversi misurare con la disabilità, almeno potrebbe contare su una famiglia che è nella condizione non scontata di poterla aiutare al meglio; tanti altri bambini, invece, di fronte alla stessa malattia non avrebbero questa possibilità.
Perchè la disabilità a seconda di dove nasci (un po’ come tutto e la testimonianza di melatequilabionda è stupenda) è diversa pur essendo a livello diagnostico identica.
Grazie di cuore e un abbraccio