Odio fare il genitore quando i miei figli riescono a dire esattamente la frase che fa più male. Quella che ti spiazza, che ti lascia in disarmo. Che ti fa vacillare la terra sotto i piedi. E tu sai che dovresti darle poco peso, scrollare le spalle e relativizzare, eppure dentro di te si forma una crepa sottile che ogni volta si allarga un po’ di più. E a te non resta che provare a richiuderla con l’oro liquido del tuo amore incondizionato e archetipico, come in un esercizio quotidiano di kintsugi che non si esaurisce mai.
Odio fare il genitore quando i miei figli mi sembrano “infelici” e io mi convinco di essere la causa principale della loro infelicità.
Odio fare il genitore quando sento di aver dato tutto quello che avevo, eppure non è stato comunque sufficiente. Quando ho fatto davvero il meglio del mio meglio, e magari mi sono inventata pure qualcosa in più. Eppure i miei figli non sono contenti, non sono tranquilli, non sono soddisfatti. Quando ho preparato con le mie mani un pasto succulento che resta a freddarsi triste in un piatto. Quando ho costruito un gioco che viene subito dimenticato, distrutto, ignorato. Quando ho dedicato tempo, energie, gioia e amore, ma questo non è abbastanza per evitare i malumori, i litigi, la rabbia reciproca. E io mi lascio abbattere, mettere in discussione e intristire per questo.
Odio fare il genitore quando mi sorprendo delusa o dispiaciuta perché le cose non vanno come io vorrei. Perché i miei figli non rispondono ad aspettative che neanche dovrei coltivare, quando non riesco ad accogliere come dovrei anche le loro fragilità, i loro limiti, i loro inevitabili e innegabili difetti.
Odio fare il genitore quando non so fare il genitore. Quando sento che quello che sto facendo non funziona, ma mi pare di non avere altre opzioni, di non sapere come aggiustare il tiro. E lo odio ancora di più quando invece so perfettamente cosa dovrei fare, eppure per qualche ragione non ne sono capace. Quando so che dovrei essere (ancora un po’) più paziente ed empatica, (ancora un po’) più saggia e illuminata. E invece riesco solo a minacciare e punire e chiudermi nella mia frustrazione.
Odio fare il genitore quando i miei figli mi sembrano irriconoscenti e insensibili. Quando mi vedono affranta, esausta, avvilita e, pur sapendo benissimo che io mi sento affranta, esausta e avvilita, si guardano tra loro ridacchiando. E io mi odio perché lascio che il loro naturale infantilismo mi ferisca, che mi faccia sentire piccola e inutile, che mi metta in crisi ancora di più.
Odio fare il genitore quando mi ritrovo a dover rispondere a dei messaggi WhatsApp con le parole senza vocali e le k al posto del “ch”. E che cominciano con “Ciao mamme!”. Quando, per il bene dei miei figli, devo passare del tempo con persone con cui non mi sento del tutto a mio agio, o in luoghi in cui non metterei mai piedi spontaneamente. Quando scegliere tra me e loro comporta necessariamente una rinuncia.
Odio fare il genitore quando mi tocca spiegare ai miei figli che “non importa quello che fanno gli altri, a casa nostra funziona così”. E devo combattere contro le cattive abitudini altrui, contro la superficialità altrui, contro la pigrizia altrui e l’altrui mancanza di senso civico. Odio fare il genitore quando penso che se vivessi altrove, se fossi nata lontano e se lontano stessero crescendo i miei figli, sarebbe tutto più semplice, meno faticoso, meno logorante.
Odio fare il genitore quando lascio che una parola altrui, un giudizio più o meno esplicito, un confronto inopportuno mi mettano in crisi e mi facciano sentire inadeguata.
Odio fare il genitore quando i miei figli si ammalano e io ho paura per loro. Quando un figlio non mio si ammala di un male che non si può guarire, e io mi sento mancare il fiato al pensiero che un giorno potrebbe capitare ai miei. Quando penso che potrei stare male io e lasciarli troppo presto.
Odio fare il genitore quando non ho il tempo per farlo come vorrei e saprei.
Fare il genitore non è banalmente “una cosa meravigliosa”, il “senso di tutto”, la gioia più grande. È anche fatica, solitudine, rabbia. È una missione che non finisce mai. Un viaggio in cui si naviga sempre a vista, in un mare che a volte si fa oscuro e tempestoso. Fare il genitore è una limitazione autoinflitta e permanente della propria libertà, una responsabilità che va ben oltre le notti insonni, le ragadi al seno e i pannolini pieni di merda.
È anche un’avventura straordinaria, naturalmente. L’esperienza umana forse più intensa che sia dato di vivere e l’ancora di salvezza più solida quando senti che stai affogando (e magari avresti la tentazione di lasciarti andare). Ma non c’è vergogna per chi ammette che a volte è estenuante, difficile, doloroso. Come la vita, che è fatta di arcobaleni luminosi ma anche di pozzanghere di melma. Che è zucchero e fiele, goduria e tormento. Che è passione, in ogni senso che a questa parola sia possibile dare.
2 Commenti
Io sono una madre che ha gettato la spugna. Evidentemente questo “lavoro” così difficile e nobile non fa per me. Sono ormai dentro una depressione profonda e in certi momenti mi pare di non amarli neanche più i miei due figli. È vero, sono solo bambini, sette e dieci anni, ma la loro disubbidienza e maleducazione sono la mia sconfitta quotidiana. Non riesco più a trovare un momento di pura felicità con loro. E pensare che fino a un paio di anni fa ero sempre pronta ad alzare il volume e mettermi a fare un ballo scatenato con loro; uscire per portarli al parco a fare due tiri al pallone… Alla fine, credo che le preoccupazioni, l’ansia e lo stress di casa e lavoro abbiano vinto sul mio entusiasmo. Ho deposto le armi e osservo i miei figli crescere e inesorabilmente allontanarsi. Ho sbagliato tutto. Ho perso.
Ciao Corinne, mi dispiace tanto. Sento il tuo dolore e la tua fatica (ma anche il tuo amore) in questo messaggio. Sicuramente l’ultimo anno ha messo tutti a durissima prova. Hai mai pensato di chiedere un supporto psicologico? Io ho fatto due anni di psicoterapia cognitivo comportamentale e da poco ho iniziato un altro percorso di psicologia corporea. È faticoso, e non sempre è risolutivo, ma aiuta. A perdonarsi, a conoscersi, a non sentirsi soli. Non mollare, e non perché tu lo debba a qualcuno, ma per te stessa, perché è possibile e giusto che tu stia meglio. Se vuoi sono qui.