Non ricordo nemmeno quando ho preso l’abitudine di rosicchiarmi le unghie e martoriarmi le “pellicine” delle ultime falangi. Per essere ancora più chiara, non rammento proprio la mia vita senza l’onicofagia, ma, in una ideale seduta di “mangiaunghie anonimi”, potrei rievocare facilmente i limitati periodi in cui sono stata libera da questa dipendenza. Nei decenni, tra smalti deterrenti, cerotti, guanti (e psicoterapie, anche se affrontate per altre ragioni), ho sperimentato molte volte il dolore pulsante delle infezioni, la mortificazione delle “mani impresentabili”, i commenti gratuiti e la frustrazione delle inesorabili ricadute. E allora, con leggerezza e senza pretesa di esaustività o autorevolezza medica, vi racconto qualcosa di un problema diffusissimo e sistematicamente sottovalutato, ma che può essere il sintomo di fragilità più generali, o il preludio di forme di autolesionismo più pericolose.
Non colpisce solo i bambini
Io, come ho già accennato, ne sono la prova vivente. Nei miei 40 anni di vita, ho smesso molte di volte di rosicchiarmi le unghie, per poi ricominciare sistematicamente dopo qualche tempo. La pandemia – che mestizia! – è stata finora l’unico deterrente efficace, dal momento che da ormai un anno e mezzo evito con scrupolo e con sostanziale successo di portarmi le mani alla bocca (anche lo smalto scuro mi sta aiutando molto, in effetti).
L’onicofagia cambia la forma delle unghie
Le mani di un rosicchiatore seriale sono riconoscibili a colpo d’occhio. Quello che forse non tutti sanno è che in molti casi, quando la dipendenza è severa, anche quando si riesce a smettere di “mangiarsi le unghie” le estremità delle mani restano segnate a lungo. Il letto ungueale (la parte rosa dell’unghia, diciamo) può risultare raccorciato e allargato, dando alle unghie una forma più tozza; le cuticole possono rimanere per tanto tempo più coriacee o addirittura callose, la crescita dell’unghia può seguire strane direzioni, per esempio piegare verso l’alto. Le mie mani presentano ancora segni inconfondibili del mio lungo passato da onicofaga, nonostante abbia smesso di tormentarle da ben più di un anno.
Non ci si mangia le unghie solo “per l’ansia”
Nell’immaginario comune, rodersi le unghie è un istinto che coglie nei picchi di ansia, nelle attese snervanti, più in generale nei momenti di nervosismo. Ma si tratta di una interpretazione semplicistica. Nella mia esperienza, per esempio, i classici momenti di tensione – le ore che precedevano un esame all’università, la sala d’attesa di un ospedale etc etc – raramente comportano in automatico una recrudescenza dell’onicofagia. E, viceversa, mi è capitato di smettere spontaneamente di mangiarmi le unghie in periodi molto complessi e difficili sul piano psicologico, come la mia prima gravidanza.
L’onicofagia non è solo un problema estetico
Questa forse è la considerazione più scontata: al di là del “rovinarsi” le mani, le persone affette da onicofagia finiscono spesso col causare a se stessi altri problemi, senza dubbio più significativi di quello estetico. Le pellicine sanguinolente e le unghie continuamente aggredite sono facile preda di infezioni batteriche e fungine, che possono diventare anche molto dolorose e richiedere tempi lunghi per la guarigione. Portarsi continuamente le mani alla bocca, inoltre, può causare afte e stomatiti. Per la mia esperienza, trovo che l’atto quotidiano del rodere le unghie finisca, col tempo, col danneggiare in qualche modo anche gli incisivi.
Ha ragioni complesse e complicate
Non è semplice indagare le cause che si nascondono dietro l’onicofagia, al di là della sua severità o della durata e sistematicità del fenomeno. Per qualcuno può servire un percorso di psicoterapia, per altri è una fase temporanea della crescita. Altri ancora, semplicemente, dovranno convivere con questa abitudine per tutta la vita. Di certo non è opportuno ricondurre il problema a una mera questione di “forza di volontà”, bollando per deboli o poco motivate le persone che non riescono a liberarsi dall’onicofagia. Come sempre, vale a mio parere una regola aurea: non giudicare, non banalizzare, non fornire consigli non richiesti. Ognuno di noi è il frutto unico e irripetibile di esperienze che nessun altro ha vissuto e che non sempre gli altri sono in grado di comprendere.