La vita di prima viene a trovarmi ogni tanto nei sogni, e lo fa nel modo più scontato possibile. Spesso sto salendo su un aereo, dentro quei sogni, guardandomi i piedi mentre mi arrampico sulla scaletta che oscilla leggermente nel vento. Mentre stacco l’ultimo passo in terra straniera e mi congedo con gratitudine e un po’ di malinconia.
Sogno i luoghi, della vita di prima. Stanze d’albergo, chiese in penombra, piazze inondate di sole. Sogno i libri, qualche volta. Le parole, le immagini, le sensazioni che ho provato mentre li leggevo. È una relativa novità, per me. Di solito i miei sogni sono popolati di gente, di voci, di incontri. Di abbracci e risate.
Non me la ricordo tanto bene, la vita di prima. O almeno, ho l’impressione che sia così. Le giornate del 2020 sono state talmente dense e ricche e faticose – tutte identiche e tutte così differenti l’una dall’altra – che questo singolo straordinario anno sembra essere durato un lustro o due. La vita di prima è come un posto, o una condizione, che mi sono stati familiari più o meno a lungo, ma che poi mi sono lasciata alle spalle: il luogo di villeggiatura abituale dell’infanzia, l’edificio in cui ho fatto il liceo, la casa della mia migliore amica delle elementari. La gravidanza, l’appartamento da studentessa in cui abitavo 20 anni fa. Sono incistati da qualche parte nella mia memoria, ma devo riflettere un poco per riportarli alla luce davvero.
C’è sempre stata, nella mia vita, una vita di prima, ora che ci penso bene. La vita prima dei figli, prima del matrimonio, prima di rientrare da Roma, prima che morissero mia nonna o mio zio o mio cugino o l’altro cugino e l’altro zio prima di loro. La vita prima che mi trasferissi a Viterbo, prima che mio padre avesse l’infarto, prima che smettessi di andare in chiesa. I temperamenti come il mio sono più inclini a misurarsi col passato che a immaginare il futuro: non c’è dolo, in questo, non c’è vergogna, anche se a lungo mi è parsa una specie di iattura. È come nascere con gli occhi marroni invece che neri o azzurri: per certe cose si è come si è, e va bene in ogni caso.
Non mi piaceva del tutto, la vita di prima, mentre la stavo vivendo. E non sono così ipocrita, né così retorica (eppure io retorica lo sono eccome!) da dire che adesso ho cambiato idea. Ci sono cose, della mia vita di prima, che non mi mancano per niente. Cose che mi aspettano in agguato – lurking, si direbbe meglio in inglese – alla fine di questa castrata e castrante vita in pandemia, e da cui vorrei potermi fare scudo con un bel vaccino nuovo. Mi offrirei senza esitare come cavia, per un vaccino così.
La vita di prima, domani, sarà quella che sto vivendo adesso. E finirà che non ricorderò bene neanche questo. Neanche questo tempo singolare, fugace eppure denso come melassa, che ora mi sembra così peculiare e a buon diritto “memorabile”. Perché così è la vita: lei procede, inarrestabile. Indifferente o potentissima, a seconda di come ci piaccia definirla.
Il passato ci rotola sotto i piedi e diventa futuro prima ancora, a volte, di darci il tempo di viverlo.
È la vita di oggi, che dovrei mordere forte e senza riserve. Quella che domani diventerà la vita di prima.