Sono diventata mamma cinque anni, sei mesi e 27 giorni fa, senza contare le 39 settimane della mia prima gravidanza. Da cinque anni, sei mesi e 27 giorni mi sforzo incessantemente di dare il massimo per essere un buon genitore. Qualche volta, quando arrivo alla fine della giornata, mi sembra di essermici avvicinata. Altre volte meno. In giorni come quelli appena trascorsi mi sembra di aver fallito su tutta la linea.
Il punto è che un buon genitore, forse, è chiamato soprattutto a una sfida precisa: educare i suoi figli a perseguire la propria felicità. Non con ogni mezzo, magari. E non certo a scapito degli altri. Ma comunque con tanta energia, consapevolezza e con una dose generosa di sano egoismo, di distacco, di libertà. Insegnare loro che sono al mondo per realizzarsi, al di là di cosa questo significhi in concreto. Che il senso stesso della loro vita consiste nel renderla felice, appagante, meritevole di essere vissuta. Che amare gli altri, e impegnarsi a fondo per il renderli felici, non dovrebbe mai prescindere dalla ricerca del proprio personale benessere. Perché, e dovrebbe essere banale, se non stai bene, non puoi in alcun modo riuscire a far star bene chi ami.
Ma come si fa ad insegnarlo ai tuoi figli, se tu stessa non lo hai ancora imparato? Se non ci hai “preso la mano”, se di fatto non sai bene come si fa? Come si fa a essere di esempio su qualcosa che tu stessa non sai fare?
Mia madre aveva il terrore dei cani. Quando sono nata, è riuscita in qualche modo a vincere, o perlomeno a moderare quella sua paura, pur di non condizionare anche me. Che guardacaso adoro i cani e la stragrande maggioranza delle bestie della Terra. Forse li avrei amati a prescindere, anche se mia madre non avesse opposto ogni resistenza possibile alla propria fobia. Oppure no, magari devo al suo sforzo la mia disinvoltura con gli animali. Nessuno saprà mai la risposta, ma io mi chiedo ogni giorno se la mia difficoltà a essere pienamente felice – a esserlo stabilmente, intendo, al di là dei tanti momenti di gioia e gratitudine -, se la mia incapacità di fare scelte che mi portino alla vera realizzazione, all’appagamento, alla pace interiore, non finirà col condannare i miei figli a una condizione più o meno simile.
Penso a mia madre, minuta e fragile con me per mano, che imponeva a se stessa di non cambiare strada dinanzi a un cane, fosse pure il più mite dei barboncini al guinzaglio. Di non tremare, di non vacillare, di non esitare nemmeno. Che riusciva in qualche modo a fingere una serenità che in quel momento non stava provando. Penso a mia madre che ha affrontato la sua natura e l’ha sovvertita. Per il mio bene. E mi dico che posso fare altrettanto per i miei figli: insegnare loro quello che non so. Illuminare per loro la strada che conduce alla felicità, anche se quella che avrei dovuto percorrere per me stessa resta in penombra, e piena di buche. Provare a fare, in nome del loro bene supremo, ciò che in una vita non ho imparato per me stessa.