È uno dei temi più cari alla vasta e agguerrita comunità di madri che affollano il web. Il senso di colpa delle mamme che vanno a lavorare, il confronto coi padri che “non ci sono mai, ma mica si sono mai sentiti in colpa per questo”. A suon di post e di commenti, ci invitiamo reciprocamente a non farci schiacciare dal rimorso causato dallo stereotipo che ancora ci vuole in cucina a crescere i pargoli mentre l’uomo di casa va a faticare senza scrupoli per pagare la spesa e le bollette.
Facciamo bene, ovviamente. Emanciparci una volta per tutte. Ricordarci che non esiste alcuna ragione biologica o culturale per cui la cura dei figli (fatto salvo ovviamente l’allattamento, per chi sceglie di allattare) debba essere sbilanciata verso le madri. Che la convinzione per cui le femmine siano istintivamente più “portate”, o peggio, più brave ad accudire i bambini è solo un retaggio della nostra cultura. Che andare a lavorare per realizzarsi, guadagnare dei soldi, migliorare il mondo non è qualcosa per cui dovremmo mai sentirci in colpa o chiedere scusa ai nostri figli o a chiunque altro.
Facciamo bene, e sarà sempre troppo tardi quando le cose cambieranno davvero (tipo introducendo un serio congedo di paternità obbligatorio. Ma questo è un altro post).
Detto questo, però, a volte mi chiedo se non dovremmo cambiare alcuni dei termini della nostra sacrosanta lotta per la parità di genere. Se, invece che gridare il nostro diritto a “fare come i maschi”, lavorando 12 ore al giorno senza sensi di colpa verso i figli, andandocene in trasferta per metà dell’anno, facendo straordinari e maratone nel weekend, non dovremmo piuttosto, tutti insieme, pretendere ritmi di lavoro e di vita più umani. Più naturali, più sostenibili. Ricordarci che il lavoro è uno strumento, non solo economico, per vivere, per affrancarci, per liberarci. Ma non dovrebbe, forse, ridursi ad essere l’unico senso delle nostre vite.
Sarebbe, credo, una rivoluzione epocale per tutte le persone che lavorano. Uomini, donne, giovani, vecchi. Coi figli e senza.
Conosco persone che guadagnano bene ma non possono viaggiare, uscire, stare con gli amici e anche coi propri figli quanto vorrebbero perché il lavoro li impegna tantissimo. Altri che i figli non ne hanno, ma coi quali non so più di cosa parlare, perché il lavoro non lascia loro la possibilità materiale o le energie per fare altro: leggere, guardare un film, ascoltare un disco, guardare una partita di basket in tv.
Forse è solo che io non sarei mai felice con una vita fatta esclusivamente di lavoro. O di figli, d’altra parte. Forse, semplicemente, la chiave è sempre la libertà di scelta. Se vuoi lavorare 12 ore al giorno, o lontano da casa, o nel fine settimana dovresti poterlo fare senza essere giudicato da nessuno. Che tu sia uomo o donna, che tu sia un genitore o meno.
Ma spero di cuore che non diventi questo – disoccupati o superoccupati – il solo modello possibile. E non perché mi sentirei in colpa nei confronti dei miei figli, ma perché sentirei che sto sprecando la mia vita.
6 Commenti
Concordo in toto! Si lavora per vivere, non si dovrebbe vivere per lavorare! Anzi si dovrebbe lavorare il minimo sindacale per vivere al massimo!
Sì, davvero! Conosco gente che arrivata alla pensione non sapeva più cosa fare perché aveva troppo tempo libero! Senza arrivare a casi estremi (il mio vicino di casa si è suicidato lasciando un biglietto in cui dichiarava di sentirsi inutile), non sarebbe meglio correre ai ripari prima?
Non c’è mai la via di mezzo. E se poi non ci si può permettere di stare a casa si può solo lavorare troppo e basta.
Ma le capiremo sempre tardi queste cose, forse quando lasceremo troppi bambini in auto … -_-
Già…
Rivendico il diritto di sentirmi in colpa, perché mi rende più attenta ai miei figli, non invidio i maschi e la loro possibilità di lavorare 12 ore al giorno, anzi, perché si perdono tanto e tante prime volte. Vorrei che le cose si potessero capovolgere e sentire di più frasi come il diritto di fare come le donne
Ma infatti il senso del post era proprio questo. 😉