Di malattie che si vedono, e di altre che non si vedono

malattie visibili e invisibili

Quando la malattia entra nella tua vita pur senza toccarti personalmente, rischi di ammalarti a tua volta, anche se da fuori nessuno se ne accorge.

Rischi di ammalarti del senso di colpa, prima di tutto. Non solo e non tanto della “vergogna dei sani” che hanno ancora le mani che funzionano, il cuore che batte a un ritmo sicuro e regolare, la mente e il passo giovani e saldi. Ma soprattutto della vergogna inconfessabile di chi, quella fortuna di essere ancora sano e forte vuole continuare a esercitarla, a onorarla, a goderne come può. Perché quando la malattia irrompe nella tua vita, o vi ritorna di prepotenza, prima o poi ti assale quel dubbio dilaniante: come puoi continuare ad andare al cinema, a laccarti le unghie, a uscire con un’amica, a mangiare sushi e bere vino? Come puoi pensare di ridere coi tuoi figli, di fare una gita fuori porta, di fare l’amore con tuo marito o di comprarti un vestito nuovo, se intanto qualcuno che ami continua a star male?

Il rischio è che ogni giorno, ogni ora, ogni grammo di energia che scegli di dedicare a qualcosa che non sia la malattia – il supporto e l’assistenza, il controllo, la presenza fisica o telefonica, la ricerca di informazioni e soluzioni, o anche solo il pensiero stesso della malattia – ti appaia alla fine come un torto. Una bestemmia, un oltraggio, un peccato grave. Come una colpa, appunto. Come un giorno, un’ora, un grammo di energia che hai rubato impunemente. La malattia e tutto quello che le ruota attorno (le terapie, le soluzioni da organizzare, la burocrazia, le relazioni col personale medico e di assistenza, il controllo costante dei sintomi e delle possibili complicazioni) rischiano di diventare l’unico orizzonte di vita ammissibile, l’unica prospettiva lecita, l’unico senso che riconosci al tuo quotidiano.

Anche se razionalmente sai che non è giusto, una parte di te cerca costantemente di convincerti che in fondo non hai il diritto di pensare ad altro, di dedicarti ad altro. Di essere, anche solo per una settimana, un giorno o poche ore, “di nuovo felice”. Al massimo, ti puoi concedere “un momento di riposo e un po’ di distrazione”, per ritrovare la forza di tornare a occuparti della malattia. E anche se, per un supremo rispetto di te e della tua vita, alla fine quelle cose le continui a fare, anche se continui ad andare alle feste, alle mostre, a teatro e al ristorante con gli amici, paghi ogni volta alla tua coscienza un prezzo altissimo. Un prezzo che nessuno saprà mai.

Quando la malattia entra nella tua vita, rischi di ammalarti di eccesso di responsabilità e di delirio di onnipotenza, forse in reazione all’orrenda impotenza che si impadronisce di te e ti avviluppa come sabbie mobili. Finisci a tratti col convincerti che se ti impegnassi “davvero a fondo”, che se facessi “davvero tutto il possibile”, le cose alla fine si risolverebbero. Si aggiusterebbero. E di conseguenza, quando qualcosa va storto, la colpa non può che essere tua. Delle decisioni che hai preso, delle cose che hai fatto e di quelle che, per debolezza o egoismo o incapacità, non sei riuscito a fare. Come se tu potessi avere il controllo definitivo della vita e della morte, della vecchiaia e della giovinezza, della salute e della malattia. Dell’operato altrui, degli eventi casuali, di tutte le infinite variabili che governano le nostre miserabili esistenze. Un delirio, appunto. Che a volte ti seduce e ti avviluppa, ti toglie il senno, il sonno, ti toglie i sogni.

Rischi di ammalarti di vittimismo e di invidia, e questi forse sono i sintomi più subdoli. Quel senso di frustrazione e di ingiustizia nei confronti “degli altri”, ovvero di chiunque in questo specifico momento ti sembri benedetto da una vita più semplice e lieta della tua. Anche se la verità, ovviamente, è che non hai la più pallida idea di come siano davvero le vite degli altri, o di come siano state in passato. Dei fardelli che le spalle altrui si sono abituate a sostenere, delle cicatrici impresse sulla loro pelle, dei vuoti e delle ferite che “gli altri” sopportano ogni giorno. Senti solo la tua fatica, la tua angoscia, il tuo rimpianto. La voglia di liberartene e la frustrazione di doverli per forza attraversare.

E rischi, ogni santo giorno, di ammalarti della paura del giudizio altrui. Di quello espresso, quello taciuto, finanche quello soltanto immaginato, frutto della proiezione verso l’esterno del buio che ti assedia. Il giudizio di chi non immagina e quindi non comprende, di chi ci è passato e ha fatto altre scelte, di chi semplicemente ritiene che potresti e dovresti essere un figlio, coniuge, genitore, familiare più devoto, più efficiente, più disposto al “sacrificio”.

L’unica cura possibile, alla malattia invisibile che accompagna le malattie, resta forse coltivare la consapevolezza che onorare la vita e cercare di essere felici rimane il nostro dovere primario. Anche nell’interesse di chi ci ama ed è costretto a vivere l’infermità in prima persona.

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2 Commenti

Salvatore 8 Aprile 2022 - 08:37

Era da un po’ che passavo sul blog e non vedevo un tuo articolo.
Non ci conosciamo, ma mi stavo preoccupando.
Non ho parole per consolarti, incoraggiarti o per darti la soluzione ai tuoi problemi.
Posso solo dirti di non mollare e di volerti bene, tanto bene.

Grazie per le tue parole,sono sempre per me spunto di riflessione.

Un abbraccio virtuale,
Salvatore

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Silvana Santo 28 Aprile 2022 - 16:24

Grazie infinite, di vero cuore. Significano tantissimo per me commenti come il tuo.

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